domenica 26 settembre 2021

Residenza UNESCO City of Literature: Milano e/è i suoi personaggi

Clara, Sebastian e io concordiamo nell’affermare che non è possibile che siano passati solo tre giorni dall’inizio della residenza. Le nostre giornate sono così piene di appuntamenti che ci sembra di essere qui da settimane. La verità è che nessuno dei tre sapeva bene cosa aspettarsi quando compilammo la domanda un anno e mezzo fa. Io addirittura credevo che il nostro ruolo sarebbe stato molto più prominente, che il Comune di Milano ci ospitasse in cambio di una bella spremuta dei nostri cervelli, ovvero che fossimo noi quelli che venivano qui a insegnare come si fa la bibliotecaria, la libraria, l’editore. 

In verità, un momento del genere è previsto all’interno del convegno nazionale delle biblioteche al palazzo delle stelline giovedì mattina, ma il nostro intervento non durerà più di venti minuti. Non che io mi stia lamentando, perché avendo la mia carriera preso una direzione completamente diversa rispetto a un anno e mezzo fa, son più che contenta di starmene zitta e buona ad assorbire le storie dei personaggi che incontriamo ogni giorno (perché di personaggi si tratta) e di sorvolare su come sono passata da librarian-in-residence internazionale a “ma-io-volevo-fare-la-scrittrice” a trentun anni.

Giovedì mattina abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Guido, il libraio della Libreria Popolare di via Tadino, che si distingue per la cura nelle sezioni di saggistica e narrativa; per una scelta di riviste letterarie che non ha confronto nelle altre librerie; e per un’atmosfera da libreria tradizionale, dove non si può bere il caffè o comprare cianfrusaglie, ma dove ci si può imbattere in una di quelle conversazioni letterarie che ti cambiano la giornata, l’anno, la vita.

Poco prima nella pausa pranzo, siamo riusciti a infilare una visita last-minute (santa Laura che ci tratta come dei VIP, anche se un po’ troppo spesso ci chiama “my chiiildren”... Ah-ehm noi saremmo qui in veste di professionisti... tipo) alla Casa Museo Boschi per vedere l’archivio delle pubblicazioni di Alberto Casiraghy, un artista dell’editoria controcorrente che pubblica sotto il nome di Pulcino Elefante. Le opere di Casiraghy parlano da sole e francamente mi consola sapere che uno così sopra le righe sia riuscito ad affermarsi nella fossa dei leoni che è il salotto letterario di Milano. D’altronde, Milano è riuscita ad amare perfino Alda Merini (che non solo conosceva Casiraghy, ma gli dettava aforismi al telefono). 





Sulla collezione permanente della Casa Museo purtroppo non ho molto da dire poiché non mi intendo di arti visive. C’erano dei quadri: erano belli o brutti sa Dio, fate voi.


Dopo una libreria sopravvissuta e un editore combattente, era difficile non partire prevenuti su una libreria molto più grande, affiliata a una casa editrice storica e consolidata, la Grande Libreria Internazionale Hoepli. E invece l’incontro con la squadra e la famiglia Hoepli ha spazzato via ogni mio pregiudizio. Dopo aver conosciuto la storia del fondatore, mi sono appassionata di un’azienda di famiglia ora guidata da Barbara Hoepli, la prima donna Hoepli a prendere in mano l’azienda, è una forza della natura con una personalità straordinariamente umana per il settore in cui lavora. Sotto di lei altre donne capaci e sensibili si occupano della linea editoriale, della comunicazione e della libreria con entusiasmo, innovazione e olio di gomito, senza la spocchia da gente che sta dentro il cerchio. La libreria è ricchissima, più di quanto ricordavo dai tempi in cui frequentavo solo il piano dei testi di lingue e delle letture semplificate. Da che dovevamo restare un’oretta e mezza, ci siamo chiusi le porte della libreria alle spalle dopo quasi quattro ore (e con una goody bag in omaggio, altri punti brownie per Barbara & co).

Venerdì è iniziato col botto, grazie al tour guidato della tipografia Bonvini 1909. Per la sottoscritta, che non si concede caffè, alcolici, sigarette né altri tipi di sostanze che danno assuefazione (meno zuccheri e carboidrati, ovviamente), Bonvini 1909 è l’equivalente della fabbrica di cioccolato di Willy Wonka. Già da fuori mi sono resa conto che sarebbe stato molto difficile uscire da lì senza spendere l’intero budget del mese in cartoleria di lusso.




Il nostro Willy Wonka era Roberto di Puma, un uomo dal misterioso passato e una curiosa fumosità sulle circostanze del suo ingresso alla tipografia, che non appartiene più alla famiglia di cui porta il nome da un po’ di anni. (Dopo, solo dopo, avremmo scoperto chi era Roberto di Puma, e avremmo stentato a crederci.) Tuttavia, non riesco a immaginare chi altri potrebbe dirigere questo posto con altrettanta intelligenza e amore per il quartiere che lo ospita. Roberto spalanca le porte della tipografia agli abitanti di corso Lodi e si impegna in attività per la sostenibilità e l’integrazione nel quartiere; lavora con le scuole e organizza laboratori di stampa tradizionale con artisti e artiste che arrivano da ogni parte per provare l’ebbrezza di incastrare e inchiostrare blocchi tipografici di legno e metallo. (Purtroppo, noi non abbiamo avuto l’opportunità perché la visita è stata organizzata abbastanza all’ultimo momento – sì, è un pattern – ma è ancora fresco il ricordo delle attività di stampa a caratteru mobili in biblioteca ai tempi d’oro di Print to the People...)




Il fiore all’occhiello della tipografia è la libreria gestita da Allegra Martin, una donna a cui sbarluccicano gli occhi quando parla delle case editrici più curiose e dei titoli introvabili che riesce a infilare nella sua libreria poco più grande di una stanza. Siamo stati conquistati da Roberto e Allegra (e non solo per il presente di una matita Bonvini personalizzata con il nostro nome) e tutti e tre noi scappati-di-casa-per-fare-cose-libresco-letterarie-a-Milano dentro alla tipografia ci avremmo volentieri passato tutta la giornata.


Il pomeriggio di venerdì era a tema biblioteche: prima abbiamo visitato la biblioteca di Dergano, una classica biblioteca di provincia dagli scaffali un po’ datati che fa quello che può per stare al passo con le poche risorse che ha. La particolarità del quartiere è un’importante presenza della comunità cinese, che è destinata a espandersi ancora di più grazie agli accordi tra l’università di Shanghai e il Politecnico, che ha sede a qualche isolato più in là. Bello vedere collezioni di libri per bambini in cinese, ancora più bello sarebbe immaginare come convivranno le diverse comunità in futuro e se troveranno spazio di dialogo proprio in biblioteca.


Alla fine di una giornata già parecchio impegnativa, ci ha dato il colpo di grazia la visita alla Biblioteca di Condominio ALER Falcone e Borsellino. La biblioteca è ospitata all’interno della portineria di un condominio di case popolari in uno stabile di epoca fascista. È gestita da un altro personaggione, un ex professore di storia che, come molti professori di storia, temo, ama molto il suono della sua voce. Luciano ci ha accolto la storia della biblioteca, un altro luogo di resistenza non visto di buon occhio da determinati gruppi nel vicinato. I libri sono circa un migliaio, la maggior parte donazioni, alcuni anche in altre lingue. 

Anche se l’iniziativa è nobile e valida, quello che non mi ha convinto (oltre al fatto che L. era circondato di donne che non ha lasciato parlare per più di due secondi ciascuna) è la programmazione culturale del comitato che gestisce la biblioteca. Sfortunatamente ripete una retorica tanto cara al Salotto Milanese e a chi fa cultura con la C maiuscola: letture di pipponi classici e incontri sulla l-e-g-a-l-i-t-à, quella cosa di cui in Italia si discute quando non si sa di cosa parlare. L’esistenza delle biblioteche di condominio è sicuramente più un bene che un male (si parla di libri, il cibo dell’anima, for fuck’s sake), ma vale la pena riflettere se alle volte chi sta dietro determinate attività di volontariato lo faccia per l’opinione che ha di sé stess*, per la sua idea di che cosa sia il bene della comunità, per noia o per una combinazione di queste tre cose.


La giornata di sabato, invece, non prevedeva incontri con professionisti, ma un percorso più visivo alla scoperta di una mostra dedicata all’oggetto libro presso l’ADI Design Museum, seguito da una visita guidata del centro storico di Milano.

La mostra Oggetto Libro valeva la pena solo perché gratuita: difficile capire la logica l’accostamento di libri veri non consultabili a opere d’arte “a forma di libro”, forse proprio perché la privazione del contenuto a favore della forma per me non rappresenta un arricchimento artistico, anzi. Detto ciò, Sebastian si è scatenato visitando il resto del museo, che raccoglie oggetti di uso quotidiano e li mostra nella loro evoluzione del design per dodici euro a biglietto (che, povero Sebastian, non includeva le traduzioni in inglese dell’espografica museale... honestly? Al Design Museum non si parla inglese?).




Più e più volte abbiamo pregato la nostra accompagnatrice Laura di avere pietà di noi che siamo qui a fare una residenza mentre con metà cervello lavoriamo e rispettiamo scadenze, confessandole che non saremmo stati in grado di reggere più di un’ora e mezza di visita guidata del centro storico di Milano insieme al bibliotecario Matteo, che avevamo già conosciuto in veste di guida della biblioteca Sormani.

Più e più volte Laura ha ripetuto a Matteo di avere pietà di noi che siamo qui, eccetera eccetera.

Niente, la visita guidata alla fine è durata due ore e mezza ma noi tre disgraziati mentiremmo se dicessimo che non ce la siamo goduta alla grande. Matteo, con tutte le sue idiosincrasie, è di gran lunga il personaggio più personaggio che abbiamo incontrato finora. Senza rinunciare alle sue date, dettagliate descrizioni architettoniche e vicende storiche al limite del pettegolezzo, Matteo alla fine ci ha mostrato dei lati della città che solo lui, ex dirigente del Castello Sforzesco e ora bibliotecario, poteva mostrarci. E non parlo solo dei teschi e del cattivo gusto di San Bernardino alle Ossa, o dei tortuosi incarichi artistici per il rifacimento di questa o quella parte del Duomo, né di nobili che costruiscono castelli per difendersi dai propri fratelli o di mogli che costruiscono torri per difendersi dai propri mariti, no. 




No, quello che non dimenticherò mai è un uomo, un rispettabile bibliotecario, ex dirigente, che si china sul pavimento del cortile dentro il castello Sforzesco e bussa su una piastrella di pietra, di fronte a noi e a una piccola platea di visitatori incuriositi, sbottando al culmine dell’esasperazione: “Sapete quanto costa una di queste piastrelle? Cinquemila euro! Avete idea di cosa vuol dire essere a capo della manutenzione di un luogo come questo?!?”. 

No, sinceramente non ne avevamo idea, ma ce la siamo fatta dopo che Matteo ci ha raccontato che lavorare per il Castello lo ha quasi mandato all’altro mondo, ma per nostra fortuna lui è ancora qua a raccontare Milano a chi pensava di conoscerla da tutta la vita.


mercoledì 22 settembre 2021

Residenza UNESCO City of Literature: il primo giorno

A dicembre del 2019 facevo domanda per quella che sembrava una residenza spaziale organizzata dal Comune di Milano all’interno del programma Cities of Literature. Un libraio, un bibliotecario e un professionista del campo editoriale sarebbero stati selezionati all’interno della rete delle città delle letterature e ospitati a Milano per scambiarsi idee, esperienze, progetti.

Da un anno ricoprivo la mia posizione del cuore, quella di community librarian per il sistema bibliotecario del Norfolk, ed ero appena ritornata dal Grande Viaggio in Nuova Zelanda quando sull’email del lavoro mi arrivò conferma che ero stata selezionata come librarian-in-residence e rappresentante della città di Norwich. (Seguì urletto di soddisfazione alla mia unimpressed collega di scrivania.)

Il tutto doveva avvenire nel marzo 2020, ma come sappiamo nulla avvenne nel marzo 2020, né a settembre 2020 (quando il programma fu rimandato per la prima volta) o a marzo 2021. Un anno e mezzo dopo, ce l’abbiamo fatta, la squadra di Milano ha messo in piedi un’incredibile (e, fino all’ultimo momento, segretissima) full-immersion nelle realtà che contribuiscono a fare di Milano una City of Literature.


I miei compagni di viaggio sono Clara Jubete, libraia catalana e responsabile di una rete di librerie indipendenti, e Sebastian Nowak, ex responsabile delle comunicazioni per la casa editrice polacca Wydawnictwo Literackie (attualmente in anno sabatico, come la sottoscritta, del resto).

Ci ha accolto Laura Teruzzi, una delle responsabili del progetto City of Literature all’interno di Milano Biblioteche, e Stefano Parise (quello Stefano Parise). La residenza è iniziata, infatti, alla Biblioteca Sormani di Milano, con un tour principalmente volto a illuminare la storia dell’edificio (anche se sarebbe stato molto più interessante concentrarsi sulle collezioni e il sistema bibliotecario, io e i miei pregiudizi da topa).

Insieme all’esperto (ma solo degli argomenti che gli piacciono) Matteo, ex guida, ci siamo infilati in un archivio di cemento e metallo e abbiamo confrontato i marmi delle scale per gli ospiti importanti con quelli delle scale di servizio; abbiamo visto con la coda dell’occhio la collezione di Stendhal e in quella di Montale; e ci siamo fatti molte domande sul metodo di catalogazione dei documenti, alle quali non riceveremo mai risposta. (Basterebbe chiedere a Laura, ma non saremmo tre millennial se non ironizzassimo 24/7.)




Nel pomeriggio, invece, Laura ci ha portato a conoscere un altro luogo in cui mi vergogno di non aver messo mai piede in tutti quegli anni in cui mi vantavo di conoscere Milano: Kasa dei Libri. Kasa con la K perché la collezione ospitata all’interno di tre appartamenti uno sopra l’altro di un condominio random nel quartiere Isola appartiene ad Andrea Kerbaker (con due k, appunto). Di lui, che non siamo riusciti a conoscere di persona, ci siamo fatti la nostra impressione come di un intellettuale eccentrico dalle buone intenzioni che mette a disposizione di tutti libri che altrimenti si troverebbero dietro le vetrine dei collezionisti o negli archivi di cemento della Sormani. (Speriamo di aver azzeccato il personaggio, ma lasciamo il giudizio personale a chi lo conosce davvero.)

In nessun altro luogo credo che sia possibile toccare con le proprie dita (unte) la prima edizione di Les Miserables e L’Homme qui rit di Victor Hugo; o altre edizioni preziose, persino autografate, di volumi pubblicati dal 1500 in avanti. Ogni tanto, qualcuno dei volumi sparisce, ma la guida di Kasa dei Libri ci tiene a raccontare che se capita Kerbaker di solito commenta che chiunque abbia rubato un determinato volume di certo ne ha bisogno più di lui.




Clara e io non potevamo ignorare la lacuna più grave sugli scaffali di Kerbaker, che di libri ne ha così tanti che alcuni li ha messi pure in bagno (appesi con la copertina rivolta verso il muro… per discrezione): pochi, pochissimi, i volumi per bambini e ragazzi. Niente, certe cose faticano a morire... come il patriarcato, i pagamenti minimi col POS, e i pregiudizi sulla letteratura per ragazzi.

Ma domani dove finiremo?

venerdì 7 febbraio 2020

Kia Ora, Aotearoa (e grazie Christchurch)

C'è qualcosa di magico nel ritornare in una città per un giorno prima di partire, anche se la città in questione non è quella che mi ha rubato il cuore. Successe anche a Santiago, nel 2014, nella quale tornai per due notti dopo cinque giorni a Rapa Nui, prima di intraprendere un viaggio lungo due giorni (Santiago, Buenos Aires, Roma, Milano). 

E così ieri sono tornata a Christchurch per mettere insieme gli ultimi pezzi del puzzle, o più praticamente, sistemare i bagagli e raccogliere le forze prima di partire. Mi sono un po' nascosta tra i locali, vivendo la città più di quanto avessi fatto settimana scorsa.


A parte una parentesi di due ore dalle 6 alle 7.45, durante la quale ero connessa con la UNED per il mio corso di scrittura creativa in spagnolo (dodici ore nel mio passato), stamattina me la sono presa con calma (alle 8 infatti mi sono rimessa a letto). Ho fatto una passeggiata in centro fino alla Tūranga, che si conferma la biblioteca più figa che ho visto in Nuova Zelanda (e quelle delle grandi città le ho viste tutte).



Mi prendo giusto un paio d'orette per finire il mio album, che ormai si sta lacerando sul dorso, ispirata dai nomi dei piani della biblioteca ("comunità", "identità", "creatività"). Dalla finestra osservo il cielo bigio aprirsi piano piano, ed è il mio segnale che posso farmi un giro per mettere qualcosa sotto i denti.


Non vado lontano: di fronte alla Tūranga e alla cattedrale (distrutta), c'è un mercatino di street food, e mi faccio tentare da un posticino pseudospagnolo e dai suoi filoni con gamberetti e chorizo, e salse varie. Una roba che mi stende, complice anche la temperatura che si sta alzando, per cui ritorno in ostello per digerire (adult life, eh).


Nel pomeriggio, mi attende una missione: trovare souvenir da portare alla famiglia, e spendere tutti i soldi che mi rimangono (ehm, più qualche extra) alla Scorpio Books. Il commesso della libreria si beccherà una promozione per avermi seguito pazientemente mentre cercavo di spiegargli che cosa volevo, e lascio la libreria con due albi illustrati sulla storia di Aotearoa, una collezione di saggi sui migranti, un libro di proverbi Maori, una raccolta di racconti, un'antologia poetica e un diario sul soggiorno a Wellington di Katherine Mansfield. Non ho trovato il libro che cercavo (e ti pareva), per cui mi faccio un chilometro e mezzo sopra uno scooter a noleggio Flamingo e mi faccio un giro in un'altra libreria, dove compro un altro albo illustrato sul Pacifico, che comunque non era il libro che cercavo.

Niente, torno un attimo in ostello per fare i bagagli e si fanno le quattro. Manca un'ora o un'ora e mezza alla chiusura dei musei e io decido di visitarne due, la galleria d'arte moderna e il museo Canterbury.

Di gallerie d'arte in generale non ne visito tante perché se non ospitano collezioni romantiche di pittori inglesi o tedeschi dell'Ottocento, per me possono anche non esistere (sorry, not sorry). C'è da dire che a quella di Dunedin ero rimasta a bocca aperta per una mostra con-tem-po-ra-nea, quindi tacivacheèmeglio.

La galleria di Christchurch (e le sue relative mostre) non si rivela all'altezza di quella di Dunedin, purtroppo, né il museo Canterbury si può paragonare all'Otago. Curiosamente, però, al Canterbury c'è una mostra sul famoso "Dunedin study". Si tratta di quello studio di mille persone nate all'inizio degli anni '70, che iniziarono a monitorare dalla nascita e continuano tutt'oggi a studiare.







La mostra spiegava come funziona lo studio, abbinando all'esposizione dei cimeli delle decadi che questi soggetti di studio hanno vissuto: anni '70, '80, '90, e 2000. (Immagino che andranno via via aggiungendo spazi.) La cosa più interessante è stato proprio scoprire che tipo di esami e sondaggi fanno con queste persone, e notare che via via che sono passate le decadi, anche la scienza è andata avanti, e lo studio si è evoluto di conseguenza, tenendosi al passo con le nuove tecnologie e conoscenze scientifiche.

Tutta quest'arte e conoscenza mi hanno messo una gran fame, ma prima vorrei approfittare della bellissima luce per fotografare la città. Ho una meta precisa, il monumento 185 White Chairs, ma prima di arrivarci faccio un lungo percorso seguendo le opere degli artisti di strada, fino a imbattermi in una piccola parete che non sembra dire niente, eppure so che si tratta di due sezioni del Muro di Berlino, donate da Berlino a Christchurch, e adibite a tela bianca permanente per chiunque voglia farci dell'arte.







Il monumento 185 White Chairs (dedicato alle vittime del terremoto del 2011) mi lascia senza parole, mi basta anche solo il concetto a commuovermi, ma vederle dal vivo mi fa una grande impressione. Resto a osservarle più a lungo del previsto, poi finalmente mi decido a cercare un posto per la cena.



Mi ricordo di un ristorante argentino che l'ultima volta avevo visto solo di passaggio e non ci penso due volte. E chi si pente. Empanadas di pesce e insalatina mista, per circa undici euro. Li spacciavano per tapas e volevano farmi ordinare altra roba, ma io sono piena come un uovo e tra un'ora e mezza devo andare al cinema, e mica mi voglio abbioccare in poltrona.





Ho scelto il cinema per dire addio a Christchurch e salutare la Nuova Zelanda, perché ogni altra ricorrenza sociale (avevo valutato altri eventi del World Buskers Festival, il teatro, gli stand-up comici, etc.) mi sarebbe pesata: mi sentivo in vena di starmene un po' da sola, senza preoccuparmi di avere la faccia triste.


E la faccia triste mi è rimasta su anche ora, nonostante il film che ho scelto, Beats (un film scozzese sull'amicizia di due adolescenti appassionati di rave all'epoca in cui nel Regno Unito fu abrogata la legge che proibiva la diffusione di musica dai "ritmi ripetitivi"), è un filmone che si chiude in crescendo, e il resto della sala lascia il cinema col sorriso.

Tra l'ansia del volo di ritorno, infinito, ma anche quella di ritornare al lavoro, e a vivere in una casa in cui faccio fatica a trovare la mia dimensione, si unisce quella di non aver ben chiaro se alla fine di questa vacanza ho davvero trovato le risposte che cercavo.

Quello di cui, sì, sono certa, è che è stato più facile connettere con quella parte di me che ho messo da parte per tanti anni, e riaprire un dialogo. Ora ci vorrà grande determinazione e disciplina perché il dialogo resti aperto, perché è fin troppo facile cadere nella spirale del troppo lavoro, troppi impegni, troppe responsabilità.

Sediamoci e parliamo. Nel frattempo, Kia Ora.