Con un po’ di giorni di ritardo, cerco di fare il resoconto
della giornata di mercoledì scorso, 6 maggio 2015.
Delusa dall’assoluta mancanza di iniziativa di chiunque, mi
sono presa la briga di disturbare il mio cugino del cuore, Gioacchino,
attualmente direttore di un hotel a Villaggio Mosè, Agrigento. Gli ho chiesto
quando sarebbe andato ad Agrigento di mattina, e mi ha portato con lui al suo
hotel.
Dopo un viaggio curvoso e abbastanza nauseante, siamo
arrivati ad Agrigento alle sette e mezza di mattina, ovvero quando la città è
ancora in piena fase REM, così mi ha proposto di fermarmi un pochino a fare
colazione in hotel, prima di partire alla ventura. Come dire di no, visto che
non capita mai?
Sostanziosa colazione a buffet in compagnia di un’orda di
ragazzini delle medie in gita, seguita da un’oretta di lettura a bordo piscina
di The Creative Writing Coursebook, altra
Bibbia che, insieme a Cowan, sta arricchendo questo writer’s retreat di ottimi consigli e metaforiche pacche sul
sedere.
Per arrivare alla Valle dei Templi, il MUST di Agrigento,
c’è un solo autobus (la linea 2), che teoricamente passa ogni mezzora.
Praticamente passa quannu agghè agghè,
“quando è, è”, e ci siamo capiti.
La Valle dei Templi nasconde un tesoro che non
ricordavo dalle escursioni estive con i miei (promemoria: “Valle dei Templi” e
“agosto” sono pericolosi nella stessa frase). Questo Eden in terra, per essere
banali, si chiama Giardino della Kolymbetra, e si capisce che è speciale perché
viene citato anche dal commissario Montalbano in non mi ricordo che
racconto/romanzo (e Camilleri è la massima autorità in Siculologia).
La Kolymbetra era un’enorme vasca alimentata da un
acquedotto che gli agrigentini hanno avuto il buon cuore di non toccare. La
vasca non c’è più, ed è stata sostituita da un giardino botanico gigantesco,
dove non manca nessuna delle piante locali. Ulivi, ulivi everywhere (e io ho
scoperto che mi piace fotografarli). Aranci, mandorli, melograni, pistacchi,
chinotti, sorbi… C’è di tutto, e ogni specie è rigorosamente corredata di
cartellino per i non addetti alla botanica.
Diciamo la verità, io sono la classica persona che è
affascinata dagli orti botanici, ma che spesso e volentieri ne rimane delusa. È
capitato a Parigi, a Norwich, a Milano, e forse anche in Spagna non mi ricordo
dove. Il Giardino della Kolymbetra però è davvero spettacolare. Non aspettatevi
filari di rose e fioruccioli decorativi, ma un vero e proprio microhabitat
siciliano, dove crescono piante della macchia, della campagna, e della costa.
Il resto della Valle dei Templi è sempre lo stesso.
Ovviamente ho beccato il giorno più caldo di maggio (35°) e l’ho visitata come
da tradizione della famiglia Traina: arrancando sotto il sole, coi pantaloni
arrotolati al ginocchio (e i polpacci sporchi di polvere dopo minuti due), e un
paio di scarpe da buttare alla fine della visita.
Il risultato: nonostante la crema solare (SPF 15, d’altra
parte), a mezzogiorno avevo già la pelle di spalle, braccia e viso, color
etichetta della Coca Cola (le tradizioni sono tradizioni, e come tali vanno
rispettate).
Che dire della Valle dei Templi, in sé? Che chi non c’è mai
stato dovrebbe farsi un favore e visitarla. (In primavera, for God’s sake).
Forse perché i Greci erano l’argomento di storia più figo delle elementari
(sorry, fan degli Egizi), forse perché pensare che quella roba lì ha più di
duemila anni, e tu ne hai venticinque, e se va bene tra settantacinque anni
(sparo alto) sarai già la polvere che sporcherà i polpacci di qualcun altro…
Non so, la Valle dei Templi è così.
La odi, perché fa caldo, ci sono pochi alberi dove
ripararsi, non c’è una fontana neanche a pagarla oro (COMUNE DI AGRIGENTO,
PARLIAMONE), e i turisti che parlano a telefono, o urlano, o salgono in piedi
sulle rovine, vorresti ammazzarli tutti a sprangate con i rami di ulivo
spezzati per terra.
La ami, perché è bellissima. È bellissima sotto il sole
pieno, o sotto l’ombra azzurrina del mattino, o nella luce arancione del
tramonto.
Che ognuno trovi il suo motivo, ma la vada a visitare.
Finita la mia escursione mattutina, un’altra ora di attesa
al sole per prendere la benedetta linea 2, che mi porterà in centro città dove
costaterò che purtroppo Agrigento potrebbe essere la città più bella della
Sicilia e invece non lo è, piagata dal traffico, dalle persone scortesi, dalle
costruzioni imbarazzanti.
Dopo un panino con la salsiccia al bar, scappo a San Leone
con un’altra linea, la 3/, che mi assicura che mi porta sul lungomare. Dalla
cartina ho in mano, lungomare = spiagge, purtroppo non è così. Lungomare vuol
dire due chilometri di scogli da una parte, e di ristoranti, villozze, e case
decadenti dall’altra.
Sotto questo sole, bello camminare… sì, ma fino a un certo
punto. Quasi un’ora di scarpinata, e arrivo alla prima spiaggia di San Leone,
sporca di legnetti e bottiglie di vetro (che nella lingua dei bagnanti vuol
dire “qui si è fatto il falò”), e vedo che il bagno non si può fare. Il vento
delle prime ore del pomeriggio (sciroccoccò) ha portato a riva un sacco di
schifezze, alghe, legni e quant’altro.
Tuttavia, l’acqua vicino agli scogli è abbastanza pulita, ma
io sono terrorizzata dai granchi (ma perché?!) allora mi avvicino solo per
riarrotolare i miei fidi jeans e sguazzare quanto basta per terminare una
giornata impegnativa ma soddisfacente raccogliendo conchiglie.
Olè.
Ritorno a casa alle 19.30, dopo un viaggio con il cugino
Gioacchino, che fa quasi male sapere quanto ama la sua terra e quanto male gli
sta facendo.
Ma si prende un bel respiro, e si va avanti. Curva dopo
curva.