domenica 10 maggio 2015

Paradise Lost: la Valle dei Templi

Con un po’ di giorni di ritardo, cerco di fare il resoconto della giornata di mercoledì scorso, 6 maggio 2015.

Delusa dall’assoluta mancanza di iniziativa di chiunque, mi sono presa la briga di disturbare il mio cugino del cuore, Gioacchino, attualmente direttore di un hotel a Villaggio Mosè, Agrigento. Gli ho chiesto quando sarebbe andato ad Agrigento di mattina, e mi ha portato con lui al suo hotel.

Dopo un viaggio curvoso e abbastanza nauseante, siamo arrivati ad Agrigento alle sette e mezza di mattina, ovvero quando la città è ancora in piena fase REM, così mi ha proposto di fermarmi un pochino a fare colazione in hotel, prima di partire alla ventura. Come dire di no, visto che non capita mai?

Sostanziosa colazione a buffet in compagnia di un’orda di ragazzini delle medie in gita, seguita da un’oretta di lettura a bordo piscina di The Creative Writing Coursebook, altra Bibbia che, insieme a Cowan, sta arricchendo questo writer’s retreat di ottimi consigli e metaforiche pacche sul sedere.

Per arrivare alla Valle dei Templi, il MUST di Agrigento, c’è un solo autobus (la linea 2), che teoricamente passa ogni mezzora. Praticamente passa quannu agghè agghè, “quando è, è”, e ci siamo capiti.


La Valle dei Templi nasconde un tesoro che non ricordavo dalle escursioni estive con i miei (promemoria: “Valle dei Templi” e “agosto” sono pericolosi nella stessa frase). Questo Eden in terra, per essere banali, si chiama Giardino della Kolymbetra, e si capisce che è speciale perché viene citato anche dal commissario Montalbano in non mi ricordo che racconto/romanzo (e Camilleri è la massima autorità in Siculologia).

La Kolymbetra era un’enorme vasca alimentata da un acquedotto che gli agrigentini hanno avuto il buon cuore di non toccare. La vasca non c’è più, ed è stata sostituita da un giardino botanico gigantesco, dove non manca nessuna delle piante locali. Ulivi, ulivi everywhere (e io ho scoperto che mi piace fotografarli). Aranci, mandorli, melograni, pistacchi, chinotti, sorbi… C’è di tutto, e ogni specie è rigorosamente corredata di cartellino per i non addetti alla botanica.


Diciamo la verità, io sono la classica persona che è affascinata dagli orti botanici, ma che spesso e volentieri ne rimane delusa. È capitato a Parigi, a Norwich, a Milano, e forse anche in Spagna non mi ricordo dove. Il Giardino della Kolymbetra però è davvero spettacolare. Non aspettatevi filari di rose e fioruccioli decorativi, ma un vero e proprio microhabitat siciliano, dove crescono piante della macchia, della campagna, e della costa.


Il resto della Valle dei Templi è sempre lo stesso. Ovviamente ho beccato il giorno più caldo di maggio (35°) e l’ho visitata come da tradizione della famiglia Traina: arrancando sotto il sole, coi pantaloni arrotolati al ginocchio (e i polpacci sporchi di polvere dopo minuti due), e un paio di scarpe da buttare alla fine della visita.


Il risultato: nonostante la crema solare (SPF 15, d’altra parte), a mezzogiorno avevo già la pelle di spalle, braccia e viso, color etichetta della Coca Cola (le tradizioni sono tradizioni, e come tali vanno rispettate).


Che dire della Valle dei Templi, in sé? Che chi non c’è mai stato dovrebbe farsi un favore e visitarla. (In primavera, for God’s sake). Forse perché i Greci erano l’argomento di storia più figo delle elementari (sorry, fan degli Egizi), forse perché pensare che quella roba lì ha più di duemila anni, e tu ne hai venticinque, e se va bene tra settantacinque anni (sparo alto) sarai già la polvere che sporcherà i polpacci di qualcun altro… Non so, la Valle dei Templi è così.   


La odi, perché fa caldo, ci sono pochi alberi dove ripararsi, non c’è una fontana neanche a pagarla oro (COMUNE DI AGRIGENTO, PARLIAMONE), e i turisti che parlano a telefono, o urlano, o salgono in piedi sulle rovine, vorresti ammazzarli tutti a sprangate con i rami di ulivo spezzati per terra.


La ami, perché è bellissima. È bellissima sotto il sole pieno, o sotto l’ombra azzurrina del mattino, o nella luce arancione del tramonto.


Che ognuno trovi il suo motivo, ma la vada a visitare.

Finita la mia escursione mattutina, un’altra ora di attesa al sole per prendere la benedetta linea 2, che mi porterà in centro città dove costaterò che purtroppo Agrigento potrebbe essere la città più bella della Sicilia e invece non lo è, piagata dal traffico, dalle persone scortesi, dalle costruzioni imbarazzanti.

Dopo un panino con la salsiccia al bar, scappo a San Leone con un’altra linea, la 3/, che mi assicura che mi porta sul lungomare. Dalla cartina ho in mano, lungomare = spiagge, purtroppo non è così. Lungomare vuol dire due chilometri di scogli da una parte, e di ristoranti, villozze, e case decadenti dall’altra.

Sotto questo sole, bello camminare… sì, ma fino a un certo punto. Quasi un’ora di scarpinata, e arrivo alla prima spiaggia di San Leone, sporca di legnetti e bottiglie di vetro (che nella lingua dei bagnanti vuol dire “qui si è fatto il falò”), e vedo che il bagno non si può fare. Il vento delle prime ore del pomeriggio (sciroccoccò) ha portato a riva un sacco di schifezze, alghe, legni e quant’altro.

Tuttavia, l’acqua vicino agli scogli è abbastanza pulita, ma io sono terrorizzata dai granchi (ma perché?!) allora mi avvicino solo per riarrotolare i miei fidi jeans e sguazzare quanto basta per terminare una giornata impegnativa ma soddisfacente raccogliendo conchiglie.


Olè.

Ritorno a casa alle 19.30, dopo un viaggio con il cugino Gioacchino, che fa quasi male sapere quanto ama la sua terra e quanto male gli sta facendo.


Ma si prende un bel respiro, e si va avanti. Curva dopo curva.