venerdì 7 febbraio 2020

Kia Ora, Aotearoa (e grazie Christchurch)

C'è qualcosa di magico nel ritornare in una città per un giorno prima di partire, anche se la città in questione non è quella che mi ha rubato il cuore. Successe anche a Santiago, nel 2014, nella quale tornai per due notti dopo cinque giorni a Rapa Nui, prima di intraprendere un viaggio lungo due giorni (Santiago, Buenos Aires, Roma, Milano). 

E così ieri sono tornata a Christchurch per mettere insieme gli ultimi pezzi del puzzle, o più praticamente, sistemare i bagagli e raccogliere le forze prima di partire. Mi sono un po' nascosta tra i locali, vivendo la città più di quanto avessi fatto settimana scorsa.


A parte una parentesi di due ore dalle 6 alle 7.45, durante la quale ero connessa con la UNED per il mio corso di scrittura creativa in spagnolo (dodici ore nel mio passato), stamattina me la sono presa con calma (alle 8 infatti mi sono rimessa a letto). Ho fatto una passeggiata in centro fino alla Tūranga, che si conferma la biblioteca più figa che ho visto in Nuova Zelanda (e quelle delle grandi città le ho viste tutte).



Mi prendo giusto un paio d'orette per finire il mio album, che ormai si sta lacerando sul dorso, ispirata dai nomi dei piani della biblioteca ("comunità", "identità", "creatività"). Dalla finestra osservo il cielo bigio aprirsi piano piano, ed è il mio segnale che posso farmi un giro per mettere qualcosa sotto i denti.


Non vado lontano: di fronte alla Tūranga e alla cattedrale (distrutta), c'è un mercatino di street food, e mi faccio tentare da un posticino pseudospagnolo e dai suoi filoni con gamberetti e chorizo, e salse varie. Una roba che mi stende, complice anche la temperatura che si sta alzando, per cui ritorno in ostello per digerire (adult life, eh).


Nel pomeriggio, mi attende una missione: trovare souvenir da portare alla famiglia, e spendere tutti i soldi che mi rimangono (ehm, più qualche extra) alla Scorpio Books. Il commesso della libreria si beccherà una promozione per avermi seguito pazientemente mentre cercavo di spiegargli che cosa volevo, e lascio la libreria con due albi illustrati sulla storia di Aotearoa, una collezione di saggi sui migranti, un libro di proverbi Maori, una raccolta di racconti, un'antologia poetica e un diario sul soggiorno a Wellington di Katherine Mansfield. Non ho trovato il libro che cercavo (e ti pareva), per cui mi faccio un chilometro e mezzo sopra uno scooter a noleggio Flamingo e mi faccio un giro in un'altra libreria, dove compro un altro albo illustrato sul Pacifico, che comunque non era il libro che cercavo.

Niente, torno un attimo in ostello per fare i bagagli e si fanno le quattro. Manca un'ora o un'ora e mezza alla chiusura dei musei e io decido di visitarne due, la galleria d'arte moderna e il museo Canterbury.

Di gallerie d'arte in generale non ne visito tante perché se non ospitano collezioni romantiche di pittori inglesi o tedeschi dell'Ottocento, per me possono anche non esistere (sorry, not sorry). C'è da dire che a quella di Dunedin ero rimasta a bocca aperta per una mostra con-tem-po-ra-nea, quindi tacivacheèmeglio.

La galleria di Christchurch (e le sue relative mostre) non si rivela all'altezza di quella di Dunedin, purtroppo, né il museo Canterbury si può paragonare all'Otago. Curiosamente, però, al Canterbury c'è una mostra sul famoso "Dunedin study". Si tratta di quello studio di mille persone nate all'inizio degli anni '70, che iniziarono a monitorare dalla nascita e continuano tutt'oggi a studiare.







La mostra spiegava come funziona lo studio, abbinando all'esposizione dei cimeli delle decadi che questi soggetti di studio hanno vissuto: anni '70, '80, '90, e 2000. (Immagino che andranno via via aggiungendo spazi.) La cosa più interessante è stato proprio scoprire che tipo di esami e sondaggi fanno con queste persone, e notare che via via che sono passate le decadi, anche la scienza è andata avanti, e lo studio si è evoluto di conseguenza, tenendosi al passo con le nuove tecnologie e conoscenze scientifiche.

Tutta quest'arte e conoscenza mi hanno messo una gran fame, ma prima vorrei approfittare della bellissima luce per fotografare la città. Ho una meta precisa, il monumento 185 White Chairs, ma prima di arrivarci faccio un lungo percorso seguendo le opere degli artisti di strada, fino a imbattermi in una piccola parete che non sembra dire niente, eppure so che si tratta di due sezioni del Muro di Berlino, donate da Berlino a Christchurch, e adibite a tela bianca permanente per chiunque voglia farci dell'arte.







Il monumento 185 White Chairs (dedicato alle vittime del terremoto del 2011) mi lascia senza parole, mi basta anche solo il concetto a commuovermi, ma vederle dal vivo mi fa una grande impressione. Resto a osservarle più a lungo del previsto, poi finalmente mi decido a cercare un posto per la cena.



Mi ricordo di un ristorante argentino che l'ultima volta avevo visto solo di passaggio e non ci penso due volte. E chi si pente. Empanadas di pesce e insalatina mista, per circa undici euro. Li spacciavano per tapas e volevano farmi ordinare altra roba, ma io sono piena come un uovo e tra un'ora e mezza devo andare al cinema, e mica mi voglio abbioccare in poltrona.





Ho scelto il cinema per dire addio a Christchurch e salutare la Nuova Zelanda, perché ogni altra ricorrenza sociale (avevo valutato altri eventi del World Buskers Festival, il teatro, gli stand-up comici, etc.) mi sarebbe pesata: mi sentivo in vena di starmene un po' da sola, senza preoccuparmi di avere la faccia triste.


E la faccia triste mi è rimasta su anche ora, nonostante il film che ho scelto, Beats (un film scozzese sull'amicizia di due adolescenti appassionati di rave all'epoca in cui nel Regno Unito fu abrogata la legge che proibiva la diffusione di musica dai "ritmi ripetitivi"), è un filmone che si chiude in crescendo, e il resto della sala lascia il cinema col sorriso.

Tra l'ansia del volo di ritorno, infinito, ma anche quella di ritornare al lavoro, e a vivere in una casa in cui faccio fatica a trovare la mia dimensione, si unisce quella di non aver ben chiaro se alla fine di questa vacanza ho davvero trovato le risposte che cercavo.

Quello di cui, sì, sono certa, è che è stato più facile connettere con quella parte di me che ho messo da parte per tanti anni, e riaprire un dialogo. Ora ci vorrà grande determinazione e disciplina perché il dialogo resti aperto, perché è fin troppo facile cadere nella spirale del troppo lavoro, troppi impegni, troppe responsabilità.

Sediamoci e parliamo. Nel frattempo, Kia Ora.



giovedì 6 febbraio 2020

Quell'albero di Wanaka (Happy Waitangi Day!)

Felice Waitangi Day, anche se ancora non siamo molto sicuri se questa ricorrenza abbia la stessa valenza storica per entrambe le parti che celebrano il trattato di Waitangi, tra l'impero britannico e quaranta capi tribù Maori. Ieri per cercare di capirne di più mi sono guardata un dibattito televisivo (prima di Ferris Bueller…), per poi rendermi conto che era trasmesso dalla tv cristiana locale, per cui ne so ancora meno di prima.

Comunque qua è festa, gli autobus sono in ritardo, tanti negozi sono chiusi, e io avevo un aereo da Queenstown a Christchurch alle quattro e mezza, per cui mi sono detta… ma se facessi una tappa veloce a Wanaka?


Quindi svegliati alle sei, prendi l'autobus delle sette e un quarto e alle nove sei a Wanaka, della quale non sai praticamente niente se non che è un po' una piccola Queenstown e che c'è un albero.

Un albero, sì.

Quell'albero, lo chiamano, e ha pure il suo hashtag, #ThatWanakaTree. Non si può che avere rispetto per un albero che ha un proprio hashtag, per cui lo dovevo andare a vedere. 


Arrivata a Wanaka, mi rendo conto che la cittadina non è grande, ma che tutte le camminate fighe sono parecchio distanti dal centro e per arrivare ci vuole la macchina. Le uniche che posso fare sono quella per arrivare a quell'albero e una su Mount Iron, che ha un nome figo quindi mi metto in testa di scalarlo.

A quell'albero ci arrivo, e anche abbastanza presto, ma il cielo è nuvolo, le foto non vengono bene, e io comincio a chiedermi cosa ci sono venuta a fare fino a Wanaka per fotografare un albero. Ma cerco di tenere su il morale, lo so che i pensieri negativi sono una brutta combinazione di squilibri ormonali da cambio di dieta e attività fisica, e certi sentimenti che ho cercato di sotterrare ben bene, ma questi vengon su come zombie ogni due per tre, e l'unica cura contro gli zombie è essere vegani, mi dicono, e io non ho proprio speranze.

Sempre con il morale sotto le suole, mi avvio verso Monte Fato Iron, e succedono tre cose. La prima è che il cielo si schiarisce, esce fuori il sole. La seconda è che cammino per più di mezz'ora e l'ingresso al sentiero per Monte Iron ancora non si vedere. La terza è che cominciano a bruciarmi e lacrimarmi gli occhi da matti.

Ma roba che a un certo punto sono in ginocchio sulla strada, strofinandomeli come una pazza, cercando di capire se ci fosse entrata della crema solare per sbaglio o che. Piango, piango di brutto, e non ho che una soluzione: tornare indietro.

Questo perché a farmeli bruciare così è il sole, e ce l'ho proprio di fronte e sono senza occhiali da sole (cioè, ce li ho, ma non vedo una mazza perché non sono graduati, quindi non li metto). Avevo già umoreggiato sul sole neozelandese che vuole ucciderci tutti. Oggi ne ho avuto la conferma.



Oltre a non esserci un filo d'ombra, si alza anche un vento pazzesco (vedi le onde del lago), che mi fa lacrimare ancora di più gli occhi. Finisco a bordo lago, sotto l'ombra di un pino, a lasciare che gli occhi si sfoghino e facciano quello che devono fare. Miracolosamente, a un certo punto smettono. Non di fare male, ma almeno di lacrimare. Chiamo Martina e mi dice che mi sono danneggiata la retina e/o ustionata le palpebre.

Dal riflesso pietoso che mi restituisce lo specchio dei bagni pubblici di Wanaka, direi entrambi. Sono a metà tra Inu Yasha quando si avvicina alla natura spettro, e il gatto con gli stivali di Shrek.

Ridendo e scherzando (!) ho appena un'ora di tempo prima di riprendere l'autobus che mi porterà diretta all'aereoporto di Queenstown, per cui decido di tornare a vedere quell'albero. Cammino sul lungolago, che è costeggiato da una linea del tempo che va dalla nascita di Cristo al 2000, ma siccome non riesco a leggere faccio foto a random, circondata da passanti che si domandano se qualche evento particolare mi stia commuovendo particolarmente.






Per pura coincidenza, leggevo di quell'albero in un manuale di scrittura creativa proprio qualche giorno fa. L'autore faceva un paragone tra quell'albero e il personaggio protagonista di una storia. Il protagonista dovrebbe aspirare a essere come quell'albero, unico, imperfetto, ma capace di attirare l'attenzione di un sacco di gente.



Oggi a Wanaka, mi sono sentita come quell'albero, protagonista della mia vita. Certo, come Harold Crick vivo le mie avventure metaletterarie chiedendomi di continuo se la mia storia sia una tragedia o di una commedia, e oggi siamo arrivati a grandi picchi di tragicommedia, ma poteva andare peggio.

Intanto, non ho perso l'aereo, sono tornata in tempo a Christchurch dove, grazie al cielo, pioviggina, e mi sono imbattuta nel Noodle Festival, con musica dal vivo e spiedini di pollo  lunghi come il mio braccio (che, #elenaforscale, non è lunghissimo ma still).


Ah, e non dimentichiamo che a Wanaka mi sono imbattuta in una gemma fuori dal tempo, dallo spazio e da ogni concetto di coerenza geografica, e non posso fare a meno che citare i Dream Theater (ugh) che citano Afredo, e concludere con un: "Ora che ho perso la vista, ci vedo di più."





mercoledì 5 febbraio 2020

Queenstown: la strada blu per Glenorchy

Ok, ammetto che scrivere un post mentre in televisione danno Ferris Bueller's Day Off è un'impresa, ma la tele è più per tenermi sveglia perché oggi è stata una di quelle giornate inaspettatamente movimentate che domani per buttarmi giù dal letto alle sei di mattina ci vorrà un willpower che neanche i fachiri sui tappeti di chiodi.

L'arrivo a Queenstown di ieri è stato traumatico, e per traumatico intendo "umido", e per umido intendo "fradicio". Una tratta di autobus da quattro ore, lasciando una Dunedin piovosa per trovare una Queenstown nel mezzo del diluvio. La mia valigia non si sa come è riuscita a prendere tutta l'acqua possibile dal bagagliaio del pullman, e la serata la passo a stendere il contenuto nella camera del B&B, guardando la pioggia fuori dalla finestra.

Si può immaginare l'umore ballerino di ieri sera, quando ancora non avevo niente di programmato per la giornata di oggi. Tenendomi in contatto con Martina e Christina, per fortuna, rimedio una gita insieme nella cittadina di Glenorchy, lungo il fantasmagorico lago Wakatipu, che stamattina ha questo aspetto:



Come per effetto di una fiala condivisa di Felix Felicis, Martina, Christina e io condividiamo la stessa meraviglia sperimentando un cambio di umore inaspettato. Ce ne andiamo in giro come bambine, esclamando "It's so beautiful!" (#itssobeautiful, #betterthanyesterday), e con il punto esclamativo, non alla maniera degli inglesi, che al massimo mettono dei puntini di sospensione e pure di malavoglia.



La strada che da Queenstown porta a Glenorchy è una delle strade più belle che abbia mai visto. Chilometri di lungolago blu, montagne, nuvole, alberi. Altro? L'idea è quella di fare una delle tante camminate che da Glenorchy si spostano sulle montagne, per osservare la vallata dall'alto. Scopriamo che tante strade sono chiuse per allagamento, per cui lasciamo la macchina e aggiungiamo un'ora e mezza di cammino alla camminata (già di due ore e mezza) che avevamo programmato.

Purtroppo (o per fortuna, la storia ci insegna) non andiamo lontano. Dopo tre quarti d'ora lungo il Dart River, a osservare quei fenomeni che ci fanno rafting (a breve qualche parola sul concetto di adrenalina di Queenstown), ci imbattiamo in una strada interrotta dal fiume, grandi ruspe che cercano di rimetterla insieme, e nessuna maniera per procedere fino al sentiero che volevamo percorrere.


Si torna indietro, ma indietro indietro, perché la tipa del centro informazioni di Glenorchy ci informa, ben appunto, che tutte le strade sono allagate, e there's only one way, ed è quella che ci porta indietro. Tutto sommato io posso dirmi soddisfatta e, alla luce del repentino cambiamento climatico, ringrazio il cielo di non aver dovuto affrontare una camminata di cinque ore e mezza indossando il triplo dei vestiti richiesti dalla giornata di oggi.




Parliamone, se il meteo mi dà una previsione di 13 gradi di massima, è difficile indovinare che invece ce ne saranno 26, con il sole della Nuova Zelanda che, abbiamo imparato, ci vuole uccidere tutti a colpi di raggi UV. Quando torniamo a Queenstown, ce la prendiamo con comodo e compensiamo le scottature con un gelato in riva al lago e i programmi per la serata, quando io e le ragazze purtroppo dobbiamo separarci.


Sull'adrenalina: a Queenstown ci vengono i pazzi. Quelli che vogliono buttarsi da strapiombi, legati a un elastico o attaccati a un aquilone/sacchetto di tela. Di attività folli ce ne sono per tutti i colori, ma sinceramente non trovo tanto il senso di voler ricercare queste sensazioni quando la Otago, e le cime intorno a Queenstown in particolare, offrono tutto quello di cui l'animo umano abbia bisogno. Casomai, nella tranquillità del lago Wakatipu, i megajet, gli elicotteri, i deltaplani, i go-kart impazziti (e la lista continua!) vengono a inquietarmi l'animo commosso. Ma questa è la mia opinione personale. Se Queenstown sull'adrenalina ci ha costruito un intero business, un motivo ci sarà.

Io però quei pazzi li invidio da morire, perché il loro coraggio verrà ripagato, mentre io me ne starò seduta in riva al lago, a osservarli da lontano. Tranne oggi, però, quando mi sono avvicinata un po' e ho sentito le loro grida di gioia dalla cima di Bob's Peak, scarpinando per una mezzoretta e buttando l'occhio anche su Ben Lomond, e su tutta la valle sottostante.