martedì 16 dicembre 2014

Once upon a time in Feltre

Ah, questo periodo dell'anno non ha pari.

Le luci di natale che illuminano le strade, le vetrine dei negozi addobbate a festa, il piacere di comprare regali per i nostri familiari e amici più cari...

Vi ricorda qualcosa?

Se siete abbastanza fortunati, forse queste sono le immagini che bene o male corredano la vostra idea di spirito natalizio.

Chi invece è uscito da un Master o da una laurea specialistica sa che questo periodo vuol dire una sola cosa: time is running out.

Concesse le dovute settimane sabbatiche nell'attesa dei risultati del corso di laurea, si è giunti a un momento cruciale. What's next? Liberamente traducibile in "e mmò?"

Nel mio caso, ci sono tante porte alle quali sto bussando. Chi sceglie una carriera nell'ambito editoriale, sa bene che alla nostra generazione - per motivi che non mi sono ben chiari - è stato revocato il sacrosanto diritto di un lavoro che occupi le convenzionali 40 ore settimanali e che conceda una certa autonomia finanziaria e professionale. 

Per sopravvivere, e per lasciare la casa di mamma e papà quando ancora siamo in grado di riprodurci, dobbiamo inventarci, reinventarci, specializzarci, e possibilmente essere anche i migliori in quello che facciamo e che non facciamo.

Dopo l'MA in Literary Translation alla UEA, sono entrata nel circolo vizioso delle domande di ammissione ad altri master e dottorati, motivo per il quale mi trovo oggi a Feltre, in provincia di Belluno.

Ho deciso di venire a visitare il Centro Studi Buzzati, autore del quale vorrei occuparmi nel caso fossi ammessa a qualche corso post-laurea alla UEA, o all'Università di Buenos Aires o di Milano.

Essendo questo un blog prevalentemente di viaggio, è mio immenso dispiacere sorvolare sulle questioni letterarie - che, ahimè, poco attirano i frequentatori di questo blog (mio papà e il cookie monster di Google) e passare direttamente alle immagini.

Feltre è carina, dall'alto dei suoi 300 e qualcosa metri di altezza (sinceramente? pensavo fosse più in alto e più vicina alla Dolomiti), vanta di siti archeologici, un museo civico, uno cristiano, un polo bibliotecario di tutto rispetto, e di una ex sede della IULM che ha chiuso i battenti nel 2010 dopo quarant'anni di attività.







La mia permanenza qui, accolta da un grigiume desolante di un dicembre insolitamente poco freddo, mi ha ricordato molto la gita che avevo fatto a Colonia del Sacramento che, hear hear, è appunto gemellata con la gemma feltrina.

Mi sono trovata incredibilmente bene con la proprietaria del Bed&Breakfast Centro Storico e con la direttrice del Centro Studi Buzzati, la quale ha passato l'intero pomeriggio a darmi consigli sulla bibliografia da inserire nella proposta di dottorato.




Tutto sommato, mi sento di aver strappato una pausa che non mi potevo permettere nel bel mezzo del circolo vizioso delle applications e delle scadenze di traduzione. 

Tuttavia, forse è proprio quando non ce lo si può permettere che si ha più bisogno di sparire dalla circolazione per un paio di giorni...

venerdì 17 ottobre 2014

L'isola più isola(ta) del mondo /2

Al mio risveglio di mercoledì 15/10/2014, mi aspetta la guida turistica, Fernando, che mi porterà a fare il giro dell’isola. Da un tour guidato mi aspettavo tra una decina e una ventina di persone e invece scopro che siamo io e Fernando, Fernando e io. Presto sarò contentissima di questa cosa, perché Fernando è una guida fenomenale (Antonio era bello bello in modo assurdo, ma Fernando è un rapa nui… parliamone…).

Fernando per prima cosa mi porta a vedere una caverna di pescatori, e siccome lui è un rapa nui può entrare dove gli pare e fare quello che vuole. I rapa nui sono cattivissimi con quelli che chiamano “gringos” (principalmente gli americani e gli inglesi): ce l’hanno con gli americani perché sono americani, e con gli inglesi perché si sono fregati il moai più bello e grande dell’isola e se lo sono portato al British Museum. Quindi, mentre le guide turistiche dei tour grandi (che sono americane o inglesi), devo prestare attenzione a dove pestano i piedi per non essere sgridati dai locali, Fernando mi porta dentro la caverna senza pensarci due volte.



Ci sediamo e mi racconta un po’ come funzionava la civiltà rapa nui. La storia è talmente bella che non mi ci metto nemmeno a raccontarla in un post, ma probabilmente mi farò ispirare da Piumini e ci scriverò sopra. Sta di fatto che Fernando è ferratissimo, ricorda date, nomi, e mostra con molta umiltà tutta una serie di competenze che io me le sogno di notte. Fernando fa la guida, ma va anche a pescare, a coltivare, costruisce capanne, conosce le costellazioni, e intaglia il legno. Io rimango stupita, ma lui mi fa intendere che è insito nella cultura rapa nui saper fare tutte queste cose.

Dopo la caverna, ci spostiamo a Ranu Raraku, la fabbrica dei moai. Fernando mi spiega come i giganteschi moai venivano intagliati nella pietra a forma di chiglia di nave, e poi venivano fatti scivolare sui fianchi della gigantesca montagna vulcanica per essere trasportati in piedi ai vari ahu, ovvero le piattaforme sparse sull’isola.



I moai non sono altro che la rappresentazione degli spiriti ancestrali dei morti: come gli antichi faraoni commissionavano sarcofagi, piramidi e quant’altro quando erano ancora in vita, così i capi-tribù più privilegiati della società rapa nui si facevano costruire i moai. Più alti erano, più importanti i morti che rappresentavano.

Ai tempi i moai avevano gli occhi, di corallo bianco, che col tempo sono caduti o si sono erosi. Per i rapa nui, gli occhi erano fondamentali e i moai guardavano sempre verso l’interno dell’isola per proteggerla. Per questo motivo, quando la società rapa nui arrivò a un grande momento di crisi per la quale la classe operaia che costruiva i moai per la classe privilegiata era praticamente ridotta in schiavitù, gli scultori si ribellarono di brutto e rovesciarono tantissimi moai a testa in giù, perché non potessero più guardare e proteggere la classe alta. Alla faccia della rivoluzione proletaria.

Di moai nella fabbrica ce ne sono tantissimi, talmente tanti che è impossibile contarli, perché alcuni sono ammucchiati sottoterra, altri invece non sono stati terminati e stanno ancora nella loro chiglia di pietra, come il moai più grande dell’isola, che misura 22 metri di altezza.

Scendiamo dalla montagna di Ranu Raraku per arrivare a Tongariki, un sito che ospita ben quindici moai in fila. Questi diventano importantissimi durante il solstizio d’inverno, perché il sole che sorge si allinea esattamente con l’ottavo moai, quello centrale. E da qui mi spiega perché l’Isola di Pasqua, o Rapa Nui, è conosciuta come l’ombelico del mondo: con uno schema semplicissimo, mi fa vedere come altri antichissimi siti religiosi di venerazione, come Stone Henge, le Piramidi e Chitchén-Itzá (e altri), siano tutti collegati a formare la testa, i polmoni, il cuore, della Terra, e come si “comportino” in maniera similare durante solstizi ed equinozi, fondamentali riti di passaggio nelle culture pagane che celebravano gli spiriti ancestrali.






Siccome Fernando è un tesoro enorme, mi parcheggia per un paio d’ore alla spiaggia di Anakena, che, a parte essere più piccolina e meno affollata, non ha niente da invidiare alle spiagge polinesiane o caraibiche delle mie ghette. 




Mi faccio il mio bel tuffo nell’oceano, giocando un po’ con i bimbi della famiglia che sta nella cabaña di fianco alla mia. Quando si annuvola e comincia a fare freschino, raggiungo Fernando che nel frattempo si è messo a intagliare un moai di legno.




Fernando mi riporta a casa, ma mi faccio strappare la promessa che mi avrebbe portato a vedere le costellazioni e l’alba (sapevo che faceva anche i tour astronomici), e lui accetta molto volentieri.

Le due mamme delle cabañas Moenga mi dicono che Matías ci avrebbe portato tutti in barca a pescare verso il tramonto per poi fare una mega grigliata di pesce in giardino. Io sono al settimo cielo, mi mancava solo la pesca… e invece.

E invece quando torniamo alle cabañas Matías e i suoi compagni di merende hanno già mangiato e sono passati al vino! Io e la famigliola ci defiliamo per prepararci una cena tra di noi, e terminiamo la serata giocando a Dobble.

Io vado a letto, ma non dormo una mazza perché mi sono presa un raffreddore che metà bastava. Tutto il giorno prima l’avevo infatti passato a lacrimare ininterrottamente, tanto che avevo dovuto farmi mettere le lacrime artificiali dal farmacista, perché per non si sa quale allergia o raffreddore non respiravo e lacrimavo a iosa.

Un gran peccato, perché all’ora X, l’ora di andare a vedere le stelle e l’alba con Fernando, ero praticamente morta.

Ciononostante, impavidamente, con Fernando ci rechiamo al sito dei quindici moai, e anche se purtroppo il cielo è in parte annuvolato, riusciamo a vedere un sacco di costellazioni. Ho visto le Pleiadi, che sono meravigliose, la cintura di Orione, la Croce del Sud, e ho visto perfettamente Giove e due sue lune. La luna stessa, la nostra, Cruithne, è chiarissima nelle lenti del binocolo di Fernando. Riesco a vedere con chiarezza la linea d’ombra, come solo l’avevo vista nelle foto.

Finalmente arriva il momento dell’alba, che aspettavo con infinita tristezza perché rappresentava il gran finale del Viaggio che ho intrapreso. E come tutti i gran finali, fa piangere, fa commuovere, fa riflettere. 




giovedì 16 ottobre 2014

L'isola più isola(ta) del mondo - /1

Come dicevo a un amico un paio di giorni fa, tra qualche mese mi sveglierò e, molto semplicemente, esclamerò: “porca vacca!”, mi rigirerò nel letto e tornerò a dormire. Poi mi risveglierò e sarà tutto reale, la seduta spiritica con Alejandra Pizarnik, il collettivo Casagrande, i miei parenti di Rosario, Antonio e i palloncini alla Chascona, l’ultima notte a Santiago, e il sogno di Valparaíso, e adesso… questo. L’isola più isola che esista al mondo e io ci sono sopra.

Lunedì 13/10/2014, ho preso un volo alle 8 del mattino da Santiago, e sei ore dopo atterravo ad Hanga Roa, l’unica città sull’Isola. All’aeroporto mi viene a prendere Matías, il proprietario del bungalow che ho affittato. Su Matías ci sarebbe da scrivere un libro, perché non ho mai incontrato un tipo più strano in vita mia. E per usare io l’aggettivo “strano”, io che dico sempre che tale aggettivo vuol dire tutto ma non vuol dire niente, vuol dire che Matías è davvero strano. È un signore che avrà una cinquantina d’anni, abbronzato, panciuto, con un’aria leggermente da mafioso. Mi viene a prendere all’aeroporto ma non guida, guida un suo amico, tra poco scopriremo perché.

Io non ero riuscita a prenotare nulla in anticipo, nessun tour, e andavo molto alla ventura. Non sono mai stata più contenta di non aver prenotato niente. Praticamente Matías si annoia da morire, tutto il tempo. E allora a lui piace fare da guida ai luoghi dell’isola alle persone che gli affittano i suoi bungalow. Mi dice che c’è un’altra famigliola – due sorelle con rispettivi pargoli – e che possiamo attendere che tornino a casa per poi andare tutti insieme in escursione. Fenomenale, asserisco. Poi lui mi dice che però devo guidare io.
Devo cosa?

Scoppio ridere e mi rendo conto che è serissimo. Mi indica la jeep e dice che la famigliola cilena viaggia per conto proprio su una jeep che hanno noleggiato, per cui se vogliamo unirci dobbiamo andare con la sua macchina ma lui non può guidare. Perché al signor Matías hanno sospeso la patente. Due volte.

In alternativa, mi dice, puoi sempre riposare a casa e usciamo domani. Riposare?? Sto nell’Isola di Pasqua solo quattro giorni, di certo non me ne starò a riposare!
Così gli dico, dammi le chiavi.

Sicché verso le tre andiamo in escursione in una caverna con dei pittogrammi, e lui ci spiega un po’ le storie dei Rapa Nui, la civiltà indigena della quale il signor Roberto Piumini e il suo Motu-Iti l’isola dei gabbiani mi fecero innamorare. Matías è ferratissimo sui Rapa Nui, perché è un Rapa Nui lui stesso. Al contrario di quanto immaginavo, la civiltà indigena dell’isola esiste ancora (io pensavo fossero tutti morti, urrà!).



Dopo la caverna, saliamo verso Orongo, che io non posso visitare perché non ho comprato il biglietto di ingresso al parco nazionale (ovvero tutta l’isola) quando sono atterrata all’aeroporto. Perché? Perché non avevo idea che bisognasse comprare un unico megaingresso per tutti i siti archeologici dell’isola. Così io rimango fuori da Orongo ma mi godo la vista mozzafiato.



Propongo a Matías di portarci in un luogo dove si potesse godere della luce del tramonto con qualche moai, che non vedevo l’ora di conoscere.

E così...





In tutto ciò, io me la guido e me la spasso su una jeep d’epoca, conciatissima sui fianchi, senza lo specchio retrovisore né il laterale di destra. Guidando la mia gippina, Matías mi racconta un po’ della sua incredibile vita di isolano. I Rapa Nui potranno lamentarsi quanto vogliono di vivere nel posto più isolato al mondo, ma ‘sti brutti ceffi godono di diritti pazzeschi. Secondo le stime di Matías, saranno 5000 in tutta l’isola. E ognuno di loro ha diritto a quanto terreno gli pare, dove gli pare, senza sborsare un soldo. Tanto più che poi le risorse sull’isola sono tantissime: ci sono pietre e legno (eucalipto, bellissimo) dappertutto e tirare su una casa (come i bungalow di Matías, che ha costruito lui) è un gioco da ragazzi. Per sopravvivere, tutti fanno un po’ di tutto. Pescano, coltivano, organizzano i tour guidati, gestiscono gli hotel. Tuttavia, trovo che non abbiano molto spirito d’iniziativa. Le vacche abbondano ma nessuno fa il latte.

Rimango piacevolmente sorpresa da due cose in particolare: che l’Isola non è affatto piccola come pensavo e che ci sono molti meno turisti del previsto. Ho fatto una cazzata prenotando solo per quattro giorni per stare nei tempi, ma se non altro ho scelto il periodo dell’anno perfetto.

Dopo il tramonto, Matías insiste per grigliare qualcosa fuori dai bungalow, così compra del pollo e tira su un fuoco. Ci sono volute circa tre ore perché il fuoco fosse pronto e la carne si cuocesse, ma ne è valsa la pena. Non per la carne, che è rimasta cruda e non era buona, ma perché Hanga Roa, l’unica città dell’isola, non solo è minuscola (non è più grande di Baruccana) ma è completamente al buio. Quindi ho finalmente visto il cielo dell’emisfero sud, un cielo che non dimenticherò facilmente.

Martedì 15 è iniziato con il piede sbagliato. Matías si sforza per far sì che gli ospiti si sentano a proprio agio, anche se in realtà ha un caratteraccio e, cosa ancora peggiore, non ha voglia di lavorare. Sembra un controsenso, però se da una parte dice “facciamo vediamo”, dall’altra si sveglia alle dieci del mattino, e se gli chiedi “che cosa facciamo oggi”, ti risponde vagamente, si gratta la testa, e ti risponde “vediamo dopo pranzo”. Siccome non mi sono svegliata alle otto per “vedere dopo pranzo”, comincio a darmi una mossa per vedere se riesco a infilarmi in un tour guidato dei siti archeologici dell’isola. Mi faccio accompagnare da Karen a comprare un ingresso al parco nazionale, ma scopro che tutti i tour sono già partiti. Così ne prenoto uno per il giorno dopo, ma rimane il dubbio su cosa fare. Decido che andrò ad Anakena, la spiaggia al nord, dove ci sono i moai ma anche il mare per fare il bagno.

Tornando a casa incontro Matías, che si è svegliato, e lo convinco a portarmi a Orongo, dove il giorno prima non ero potuta entrare. E per “portarmi” intendo io guido la jeep e tu mi sveli i segreti dell’isola. Orongo è molto bello. Si trova esattamente di fronte alle isolette Motu Nui e Motu Iti, le isole del romanzo di Piumini. Sono isole importantissime perché lì si celebrava la cerimonia dell’uomo-uccello, una gara tra i figli delle famiglie più importanti dell’isola, che si sfidavano a lanciarsi dalla scogliera, andare fino alle isolette a nuovo e tornare indietro a toccare un certo moai con un uovo di gabbiano, le prime uova della primavera. 


Orongo è un sito archeologico interessantissimo, ci sono antiche costruzioni di pietra e petroglifici, nonché il cratere di un vulcano spento da millenni che ospita un microecosistema spettacolare, una palude di acqua e erbe medicinali.





Dopo Orongo, torniamo ai bungalow e ci uniamo alla famiglia che vuole andare a vedere la pietra magnetica e andare a fare un giro ad Anakena, dove avevo intenzione di andare io a fare il bagno. La pietra magnetica è un sasso gigante che si dice faccia impazzire tutte le bussole. Io non so se è vero, quello che so è che Matías dice che questa pietra non abbia niente a che fare coi Rapa Nui, bensì è una pietra trovata a riva dagli inglesi che hanno pensato bene di spostarla in un sito moai.



Dopo la pietra magnetica di cui sopra, finalmente andiamo in spiaggia, ma Matías non ne vuole sapere di scendere con noi. Così mi dà mezzora di tempo e passo la mia mezzoretta sciacquando le zampe in acqua e coprendomi di sabbia corallina.



Per terminare in bellezza, dopo aver riportato Matías a casa, vado a vedere il tramonto alla caletta da dove salpano le barchette dei pescatori di Hanga Roa. Dicono che è un luogo pieno di tartarughe marine, purtroppo non ho ancora avuto l’onore di vederne nessuna.


Di surfisti che danzano sulle onde del tramonto, però, quelli a mazzi. 


lunedì 6 ottobre 2014

Valparaíso Eterno

Questo sarà l'ultimo post dell'avventura sudamericana, con malinconia perché so che adorerò rileggere le disavventure che ho vissuto quaggiù, però è arrivato il momento di curarmi di cose che giacciono al di fuori del mondo reale, in una dimensione personale e poetica, alla quale non posso accedere se continuo a lasciarmi distrarre. 

Valparaíso è una città di poeti, artisti, cani randagi, scalinate e case dai colori più improbabili, chiese e carceri, cimiteri e terrazze sul mare. Moli e fianchi scoscesi, funicolari, acque lilla e mendicanti che battono i loro bastoni sui sampietrini.

Starò qui fino a venerdì. E' poco il tempo, come lo è sempre. Ma so che qualcosa nascerà, qui. Di triste o di bellissimo, ancora non so. Sincero, però.

E qualsiasi cosa sia, la dedicherò a chi in questo fazzoletto mosaicato vi è nato, o vi ha scritto, o vi ha lasciato il cuore.
















  
Da Valparaíso Eterno, con tutto il bene che vi voglio.

E.

Santiago... ultimo giorno?

Con un inizio esplosivo, mattinata tra museo di arte precolombiana ed esposizione fotografica sull'antipoeta Nicanor Parra - del quale ho iniziato a leggere "Conversazioni" e "Poesia e Antipoesia".

Il museo di arte precolombiana è indescrivibile. Non so come mai, ma da sempre quando ero piccolina, non mi ha mai fatto impazzire vedere i manufatti... sarà perché gli unici ricordi di musei che ho sono il museo egizio di Milano e la corona della regina Teodolinda.

E la regina Teodolinda ci sta anche, ma da piccola gli egizi facevano un po' troppo tendenza perché mi piacessero. E soprattutto la mia nemesi delle elementari andava matto per gli egizi, quindi...

COMUNQUE, sta di fatto che i manufatti precolombiani mi hanno lasciato di stucco. Anfore, vasi, bottiglie dalle forme più disparate, maschere mortuarie (quelle ci sono sempre, in tutte le civiltà!), ma soprattutto tele, vestiti e arazzi antichi di migliaia di anni.

Pausa riflessione. Migliaia di anni e ancora i vestiti conservavano le decorazioni, i ricami e le pitture originali.

Mentre noi.

Esseri umani. Dopo qualche giorno dalla nostra dipartita siamo cibo per vermi.

Comunque, di nuovo.

Sparatevi 'sti manufatti.




Queste sacche e borse risalgono al 1200-1500... E chissà poi dove le sono andate a pescare, le Ande non sono mica Versailles...



Poi ho visto le mie decorazioni da giardino di quando sarò ricchissima e avrò una villetta  (mia) su un'isoletta (mia) nelle Fiji (mie, pure quelle).

Ecco a voi, la famiglia Tronco. La signora Tronco, il signor Tronco, lo zio Tronco, Tronchino, Tronchetta, Troncolo... etc. etc. Queste statue mortuarie più alte di me sono la cosa che più si avvicina a una cazzutissima decorazione da giardino.



Dunque, dopo il museo precolombiano, sono andata a vedere la famosa esposizione su Nicanor Parra... Incredibile quanto abbiamo conosciuto di lui in questi pochi giorni. E' un tipo davvero tosto, tanto che il 5 settembre ha compiuto 100 anni e vive ancora nella sua casa di un tempo e scrive ancora.

Che tipo.

Un modello.




Da queste cornette sospese - e ce n'erano tantissime - si udiva la voce di Nicanor Parra che legge poesie, o risponde a interviste, o semplicemente racconta. La sensibilità artistica del genio che ha pensato di far sì che i visitatori della mostra potessero "parlare a telefono" con Nicanor Parra è da applaudire e da imitare. Già già.




Un non so che di Einstein, vero?

Nel pomeriggio, dopo aver fatto la valigia cinque o sei volte, cercando di far sparire 10 chili magicamente (e non è la prima volta che provo a far sparire dieci chili magicamente nella mia vita... credetemi, non funziona mai.), sono andata a bere un tè con Julio di Casagrande.

E la selfie col poeta (#selfiecolpoeta) ce la vogliamo mettere?

Mettiamocela. (poeti che non sanno fare gli autoscatti)


Ma visto che Santiago, Santiago aveva bisogno di un gran finale, dopo che Julio è tornato a casa sua ho pensato di rendere omaggio al Poeta con un mini-intervento poetico della mia taglia.

Sono salita fino ai piedi del Cerro San Cristobal, alla Chascona, la casa di Neruda, con cinque palloncini (e uno di riserva, che infatti è scoppiato).

Al tramonto ho attaccato cinque poesie mie ai palloncini e... puff... via con il vento, chissà verso quali cieli...