venerdì 17 ottobre 2014

L'isola più isola(ta) del mondo /2

Al mio risveglio di mercoledì 15/10/2014, mi aspetta la guida turistica, Fernando, che mi porterà a fare il giro dell’isola. Da un tour guidato mi aspettavo tra una decina e una ventina di persone e invece scopro che siamo io e Fernando, Fernando e io. Presto sarò contentissima di questa cosa, perché Fernando è una guida fenomenale (Antonio era bello bello in modo assurdo, ma Fernando è un rapa nui… parliamone…).

Fernando per prima cosa mi porta a vedere una caverna di pescatori, e siccome lui è un rapa nui può entrare dove gli pare e fare quello che vuole. I rapa nui sono cattivissimi con quelli che chiamano “gringos” (principalmente gli americani e gli inglesi): ce l’hanno con gli americani perché sono americani, e con gli inglesi perché si sono fregati il moai più bello e grande dell’isola e se lo sono portato al British Museum. Quindi, mentre le guide turistiche dei tour grandi (che sono americane o inglesi), devo prestare attenzione a dove pestano i piedi per non essere sgridati dai locali, Fernando mi porta dentro la caverna senza pensarci due volte.



Ci sediamo e mi racconta un po’ come funzionava la civiltà rapa nui. La storia è talmente bella che non mi ci metto nemmeno a raccontarla in un post, ma probabilmente mi farò ispirare da Piumini e ci scriverò sopra. Sta di fatto che Fernando è ferratissimo, ricorda date, nomi, e mostra con molta umiltà tutta una serie di competenze che io me le sogno di notte. Fernando fa la guida, ma va anche a pescare, a coltivare, costruisce capanne, conosce le costellazioni, e intaglia il legno. Io rimango stupita, ma lui mi fa intendere che è insito nella cultura rapa nui saper fare tutte queste cose.

Dopo la caverna, ci spostiamo a Ranu Raraku, la fabbrica dei moai. Fernando mi spiega come i giganteschi moai venivano intagliati nella pietra a forma di chiglia di nave, e poi venivano fatti scivolare sui fianchi della gigantesca montagna vulcanica per essere trasportati in piedi ai vari ahu, ovvero le piattaforme sparse sull’isola.



I moai non sono altro che la rappresentazione degli spiriti ancestrali dei morti: come gli antichi faraoni commissionavano sarcofagi, piramidi e quant’altro quando erano ancora in vita, così i capi-tribù più privilegiati della società rapa nui si facevano costruire i moai. Più alti erano, più importanti i morti che rappresentavano.

Ai tempi i moai avevano gli occhi, di corallo bianco, che col tempo sono caduti o si sono erosi. Per i rapa nui, gli occhi erano fondamentali e i moai guardavano sempre verso l’interno dell’isola per proteggerla. Per questo motivo, quando la società rapa nui arrivò a un grande momento di crisi per la quale la classe operaia che costruiva i moai per la classe privilegiata era praticamente ridotta in schiavitù, gli scultori si ribellarono di brutto e rovesciarono tantissimi moai a testa in giù, perché non potessero più guardare e proteggere la classe alta. Alla faccia della rivoluzione proletaria.

Di moai nella fabbrica ce ne sono tantissimi, talmente tanti che è impossibile contarli, perché alcuni sono ammucchiati sottoterra, altri invece non sono stati terminati e stanno ancora nella loro chiglia di pietra, come il moai più grande dell’isola, che misura 22 metri di altezza.

Scendiamo dalla montagna di Ranu Raraku per arrivare a Tongariki, un sito che ospita ben quindici moai in fila. Questi diventano importantissimi durante il solstizio d’inverno, perché il sole che sorge si allinea esattamente con l’ottavo moai, quello centrale. E da qui mi spiega perché l’Isola di Pasqua, o Rapa Nui, è conosciuta come l’ombelico del mondo: con uno schema semplicissimo, mi fa vedere come altri antichissimi siti religiosi di venerazione, come Stone Henge, le Piramidi e Chitchén-Itzá (e altri), siano tutti collegati a formare la testa, i polmoni, il cuore, della Terra, e come si “comportino” in maniera similare durante solstizi ed equinozi, fondamentali riti di passaggio nelle culture pagane che celebravano gli spiriti ancestrali.






Siccome Fernando è un tesoro enorme, mi parcheggia per un paio d’ore alla spiaggia di Anakena, che, a parte essere più piccolina e meno affollata, non ha niente da invidiare alle spiagge polinesiane o caraibiche delle mie ghette. 




Mi faccio il mio bel tuffo nell’oceano, giocando un po’ con i bimbi della famiglia che sta nella cabaña di fianco alla mia. Quando si annuvola e comincia a fare freschino, raggiungo Fernando che nel frattempo si è messo a intagliare un moai di legno.




Fernando mi riporta a casa, ma mi faccio strappare la promessa che mi avrebbe portato a vedere le costellazioni e l’alba (sapevo che faceva anche i tour astronomici), e lui accetta molto volentieri.

Le due mamme delle cabañas Moenga mi dicono che Matías ci avrebbe portato tutti in barca a pescare verso il tramonto per poi fare una mega grigliata di pesce in giardino. Io sono al settimo cielo, mi mancava solo la pesca… e invece.

E invece quando torniamo alle cabañas Matías e i suoi compagni di merende hanno già mangiato e sono passati al vino! Io e la famigliola ci defiliamo per prepararci una cena tra di noi, e terminiamo la serata giocando a Dobble.

Io vado a letto, ma non dormo una mazza perché mi sono presa un raffreddore che metà bastava. Tutto il giorno prima l’avevo infatti passato a lacrimare ininterrottamente, tanto che avevo dovuto farmi mettere le lacrime artificiali dal farmacista, perché per non si sa quale allergia o raffreddore non respiravo e lacrimavo a iosa.

Un gran peccato, perché all’ora X, l’ora di andare a vedere le stelle e l’alba con Fernando, ero praticamente morta.

Ciononostante, impavidamente, con Fernando ci rechiamo al sito dei quindici moai, e anche se purtroppo il cielo è in parte annuvolato, riusciamo a vedere un sacco di costellazioni. Ho visto le Pleiadi, che sono meravigliose, la cintura di Orione, la Croce del Sud, e ho visto perfettamente Giove e due sue lune. La luna stessa, la nostra, Cruithne, è chiarissima nelle lenti del binocolo di Fernando. Riesco a vedere con chiarezza la linea d’ombra, come solo l’avevo vista nelle foto.

Finalmente arriva il momento dell’alba, che aspettavo con infinita tristezza perché rappresentava il gran finale del Viaggio che ho intrapreso. E come tutti i gran finali, fa piangere, fa commuovere, fa riflettere. 




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