venerdì 17 aprile 2015

Non è un paese per... introversi

Ho iniziato un paio di giorni fa a seguire la dispensa delle lezioni di Creative Writing del professor Cowan, UEA.

La prima lezione era molto interessante, sulle abitudini e le routine degli scrittori. Su come costruirsi una routine e uno spazio mentale dedicato alla scrittura nonostante tutti i possibili nemici: la procrastinazione, il mal di schiena, le persone che non ci supportano, etc.

Il secondo capitolo della dispensa di Cowan, che un po’ continua sul tema “buone abitudini”, parla degli observational journals, i taccuini di osservazione. Uno scrittore deve imparare a essere una persona a cui non sfugge niente, ed è buona norma che prenda appunti su tutto. Sul tempo. Su quello che vede fuori dalla finestra. Sulle scene di convivialità famigliare e sul lavoro. Tutto fa brodo, come si dice. Tutto fa materiale che può servire, che può tornare, o che può crescere e maturare silenziosamente per i fatti suoi, finché un bel giorno non nasce una storia.

Così ho aperto un po’ gli occhi, e me ne sono andata in giro per questo paese che pensavo di conoscere come le mie tasche, ma che ogni anno mi stupisce con le sue contraddizioni.

Tutti conoscono tutti.

Tranne quelli che vengono da fuori.

E, fidatevi, si capisce che vengo da fuori.

La mia giacca, per esempio, è viola. Una giacca viola in un paese color polvere illuminata da un raggio di sole è un pugno in un occhio.

Poi ho il vizio di non salutare le persone che non conosco. Se ti conosco mi fermo, ti saluto e facciamo conversazione. Se non ti conosco, mi sembra proprio strano.  Eppure qui funziona così. Ci sarà forse mezzo chilometro da casa di mia nonna alla casa al convento, e di persone ne incontro nel tragitto. I clienti occasionali del negozio di alimentari, la putía, a metri quaranta da casa di mia nonna. La fruttivendola e la signora del negozio di vestiti, a metri venti. Il tizio che lavora con la fiamma ossidrica in un garage adibito a officina di non si capisce bene che cosa. Le persone che si raccolgono intorno alla fontana de lu Baruni. Numero X signore che spazzano i balconi tutti i santi giorni, o che stendono e ritirano i vestiti ogni due ore.

Mi salutano tutti. E io saluto. Adesso saluto io per prima, perché se no si fa la figuraccia e le voci girano.

A volte però il saluto innesca l’interrogatorio. Prima mi salutano, e poi mi chiedono:

TU CHI SEI?

Tu. Chi. Sei. Ma ditemi voi se si può andare in giro a chiedere alle persone chi sono. Come se uno avesse il tempo per fermarsi a riflettere sulle condizioni dell’esistenza mentre va a prendere il pane o l’acqua alla fontana.

Tu chi sei?
Di chi sei figlia?
E dove state?
Quando siete venute?
Quanto rimanete?

Queste sono le domande di routine. A volte mi sembra di essere nella scena di Non ci resta che piangere “chi siete, quanti siete, cosa portate, sì ma quanti siete, un fiorino!”.

Perfino i bambini per le strade mi chiedono “tu come ti chiami?” e “da dove vieni?”.

Una volta, ho sentito la mia vicina di casa che si riferiva a me come la Milanisa. Non mi ha stupito, anche mia cugina Fabiana, che mi vuole un sacco bene, ogni tanto non riesce a trattenersi e mi chiama così.

So che funziona così, quindi tanto vale non prendersela. I figli di immigrati sono condannati a essere i ritagli della società ovunque vadano. Al sud, sono quelli del nord. Al nord, sono quelli del sud.

L'ultimo aspetto di questo paese che mi viene ricordato ogni volta che ritorno (perché quando si lascia Alessandria della Rocca, uno si ricorda solo delle cose belle... quanto tutti si sbattono per tutti, la bellezza del paese e delle colline, il fatto che non si è mai soli...):

l’intrattenimento principale per la gente di questo paese, infatti, è la gente stessa di questo paese.

Sono qui da tre giorni, e mi hanno già raccontato tutto. Chi non si laurea, chi va a letto col professore, chi non accetta le offerte di lavoro statali perché le suore pagano di più, chi si finge cieco per avere la pensione di invalidità, chi è invalido veramente e non gliela danno, chi manda le lettere anonime in questura perché una famiglia ha rilevato un ristorante costruito abusivamente, e chi paga il pizzo al tabaccaio perché lasci in pace la questura.


In un paese come questo, che di certo non è un paese per introversi, un taccuino d’osservazione finisce in un giorno.  

mercoledì 15 aprile 2015

Le cronache siciliane

Ho deciso di venirmene qui in Sicilia, tra la casa della nonna Angelina e la vecchia casa di mio papà, disabitata 11 mesi l’anno, perché avevo qualcosa da scrivere. Una cosa che tengo da parte dal 2007 e che è ora che venga fuori.

Qui c’è la campagna, i versanti delle colline sono verdi e oro, il cielo è azzurro, e il vento non è insopportabile. Un paradiso bucolico, ma Thoreau insegna che non è tutto oro quello che sembra campagna.


Per una fortunata coincidenza di lavoro, mi sono portata con me Walden, ovvero: vita nei boschi, di Henry Thoreau, un tizio vissuto cent’anni fa che a un certo punto ha detto “grazie, arrivederci, me ne vado a vivere in una capanna sul lago di Walden, in comunione con la Natura e lontano dagli scassaballe”.

Thoreau era continuamente tormentato dalle persone che gli chiedevano “ma come fai a prendere e mollare tutto”, “ma cosa vai a fare”, “ma non ti senti solo”, ma, ma, ma, tanto che alla fine Walden l’ha scritto anche per quelle persone lì.

Io non me ne sto due anni lontano dalla civiltà, ma quaranta giorni in un paesino di campagna – e credetemi se non trovo molte differenze. Qui non c’è l’ansia dell’orologio, della quale io stessa sono una vittima irrecuperabile, e non c’è l’ansia del vedersi, del fare cose, del produrre, del fatturare. Del “cosa farai l’anno prossimo”. D’altra parte, non c’è nemmeno Internet, la maggior parte del tempo, non c’è il riscaldamento e dormo in una camera fredda come una chiesa sotto dieci coperte.

Ma gli scassaballe ce li ho anche io, come Thoreau. Chi pensa che io stia qui in vacanza, con le pinne, il costume, gli occhiali e la crema solare. Chi mi chiede se non mi sento in colpa a essere pagata per quello che traduco. Chi mi chiede che cosa ci sono venuta a fare qua. 

Che cosa ci sono venuta a fare qua? A scrivere cose. A leggere cose. A tradurre cose. Che ci si creda o no, a fare il mio mestiere.

Ho racconti e una raccolta di poesie da editare, e una bozza di romanzo da stendere. Forse due libri da tradurre. Sì insomma, il solito tichitichitì sulla tastiera.

Sono arrivata lunedì, ieri ho avuto modo di ambientarmi, aprire la casa, spazzare le cacche dei piccioni dal balcone, e sistemare la mia postazione, dalla quale osservo i panni stesi degli altri e la facciata del convento in cima alla collina che fin da piccola voleva dire “casa”. 


Così sto qua, faccio su e giù dalla collina, casa della nonna-convento-casa della nonna. Me ne vengo qua al convento la mattina tardi per scrivere, per tradurre e per studiare scrittura con i manuali della UEA, che non mi ha accettato al Master ma le voglio bene lo stesso. 

Il resto del tempo faccio passeggiate sui fianchi della collina, fotografo questa Sicilia verde, che mi fa un po’ strano perché l’ho sempre vista bruciata ad agosto.


Non sono da sola. Ho con me dei metaforici e pensati compagni di viaggio: Henry Thoreau, con il suo Walden, e Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé. 

E poi c’è con me tutto il paese, forse duemila anime, che in un modo o nell’altro mi vengono tutte parenti. Quando cammino per la strada, la gente mi ferma e mi chiede impunemente “tu chi sei”. Allora glielo spiego, che sono la figlia di Tanina, figlia di Angelina Rizzolo, quella che sta ni lu curtigliu, e figlia di Pino, ‘u prufessuri. E puntualmente si scopre che siamo parenti. O un modo in cui ci si conosce lo si trova comunque. 


Spero che come a Norwich e nello stravolgente viaggio in Sudamerica, riuscirò a essere costante anche con questo blog, per quest’avventura che non si sa bene cos’è, se una ricerca o una scoperta, se tutt’e due o tutt’altro.

Vi lascio con una citazione di Stephen King che mi è sempre piaciuta:

I dilettanti si siedono e aspettano l’ispirazione, il resto di noi si alza e va al lavoro.