Al
mio risveglio di mercoledì 15/10/2014,
mi aspetta la guida turistica, Fernando, che mi porterà a fare il giro
dell’isola. Da un tour guidato mi aspettavo tra una decina e una ventina di
persone e invece scopro che siamo io e Fernando, Fernando e io. Presto sarò
contentissima di questa cosa, perché Fernando è una guida fenomenale (Antonio
era bello bello in modo assurdo, ma Fernando è un rapa nui… parliamone…).
Fernando
per prima cosa mi porta a vedere una caverna di pescatori, e siccome lui è un
rapa nui può entrare dove gli pare e fare quello che vuole. I rapa nui sono
cattivissimi con quelli che chiamano “gringos” (principalmente gli americani e
gli inglesi): ce l’hanno con gli americani perché sono americani, e con gli
inglesi perché si sono fregati il moai più bello e grande dell’isola e se lo
sono portato al British Museum. Quindi, mentre le guide turistiche dei tour
grandi (che sono americane o inglesi), devo prestare attenzione a dove pestano
i piedi per non essere sgridati dai locali, Fernando mi porta dentro la caverna
senza pensarci due volte.
Ci
sediamo e mi racconta un po’ come funzionava la civiltà rapa nui. La storia è
talmente bella che non mi ci metto nemmeno a raccontarla in un post, ma
probabilmente mi farò ispirare da Piumini e ci scriverò sopra. Sta di fatto che
Fernando è ferratissimo, ricorda date, nomi, e mostra con molta umiltà tutta
una serie di competenze che io me le sogno di notte. Fernando fa la guida, ma
va anche a pescare, a coltivare, costruisce capanne, conosce le costellazioni,
e intaglia il legno. Io rimango stupita, ma lui mi fa intendere che è insito
nella cultura rapa nui saper fare tutte queste cose.
Dopo
la caverna, ci spostiamo a Ranu Raraku, la fabbrica dei moai. Fernando mi
spiega come i giganteschi moai venivano intagliati nella pietra a forma di
chiglia di nave, e poi venivano fatti scivolare sui fianchi della gigantesca
montagna vulcanica per essere trasportati in piedi ai vari ahu, ovvero le piattaforme sparse sull’isola.
I
moai non sono altro che la rappresentazione degli spiriti ancestrali dei morti:
come gli antichi faraoni commissionavano sarcofagi, piramidi e quant’altro
quando erano ancora in vita, così i capi-tribù più privilegiati della società
rapa nui si facevano costruire i moai. Più alti erano, più importanti i morti
che rappresentavano.
Ai
tempi i moai avevano gli occhi, di corallo bianco, che col tempo sono caduti o
si sono erosi. Per i rapa nui, gli occhi erano fondamentali e i moai guardavano
sempre verso l’interno dell’isola per proteggerla. Per questo motivo, quando la
società rapa nui arrivò a un grande momento di crisi per la quale la classe
operaia che costruiva i moai per la classe privilegiata era praticamente
ridotta in schiavitù, gli scultori si ribellarono di brutto e rovesciarono
tantissimi moai a testa in giù, perché non potessero più guardare e proteggere
la classe alta. Alla faccia della rivoluzione proletaria.
Di
moai nella fabbrica ce ne sono tantissimi, talmente tanti che è impossibile
contarli, perché alcuni sono ammucchiati sottoterra, altri invece non sono
stati terminati e stanno ancora nella loro chiglia di pietra, come il moai più
grande dell’isola, che misura 22 metri di altezza.
Scendiamo
dalla montagna di Ranu Raraku per arrivare a Tongariki, un sito che ospita ben
quindici moai in fila. Questi diventano importantissimi durante il solstizio
d’inverno, perché il sole che sorge si allinea esattamente con l’ottavo moai,
quello centrale. E da qui mi spiega perché l’Isola di Pasqua, o Rapa Nui, è conosciuta
come l’ombelico del mondo: con uno schema semplicissimo, mi fa vedere come
altri antichissimi siti religiosi di venerazione, come Stone Henge, le Piramidi
e Chitchén-Itzá (e altri), siano tutti collegati a formare la testa, i polmoni,
il cuore, della Terra, e come si “comportino” in maniera similare durante
solstizi ed equinozi, fondamentali riti di passaggio nelle culture pagane che
celebravano gli spiriti ancestrali.
Siccome
Fernando è un tesoro enorme, mi parcheggia per un paio d’ore alla spiaggia di
Anakena, che, a parte essere più piccolina e meno affollata, non ha niente da
invidiare alle spiagge polinesiane o caraibiche delle mie ghette.
Mi faccio il
mio bel tuffo nell’oceano, giocando un po’ con i bimbi della famiglia che sta
nella cabaña di fianco alla mia. Quando si annuvola e comincia a fare
freschino, raggiungo Fernando che nel frattempo si è messo a intagliare un moai
di legno.
Fernando
mi riporta a casa, ma mi faccio strappare la promessa che mi avrebbe portato a
vedere le costellazioni e l’alba (sapevo che faceva anche i tour astronomici),
e lui accetta molto volentieri.
Le
due mamme delle cabañas Moenga mi dicono che Matías ci avrebbe portato tutti in
barca a pescare verso il tramonto per poi fare una mega grigliata di pesce in
giardino. Io sono al settimo cielo, mi mancava solo la pesca… e invece.
E
invece quando torniamo alle cabañas Matías e i suoi compagni di merende hanno
già mangiato e sono passati al vino! Io e la famigliola ci defiliamo per
prepararci una cena tra di noi, e terminiamo la serata giocando a Dobble.
Io
vado a letto, ma non dormo una mazza perché mi sono presa un raffreddore che
metà bastava. Tutto il giorno prima l’avevo infatti passato a lacrimare
ininterrottamente, tanto che avevo dovuto farmi mettere le lacrime artificiali
dal farmacista, perché per non si sa quale allergia o raffreddore non respiravo
e lacrimavo a iosa.
Un
gran peccato, perché all’ora X, l’ora di andare a vedere le stelle e l’alba con
Fernando, ero praticamente morta.
Ciononostante,
impavidamente, con Fernando ci rechiamo al sito dei quindici moai, e anche se
purtroppo il cielo è in parte annuvolato, riusciamo a vedere un sacco di
costellazioni. Ho visto le Pleiadi, che sono meravigliose, la cintura di
Orione, la Croce del Sud, e ho visto perfettamente Giove e due sue lune. La
luna stessa, la nostra, Cruithne, è chiarissima nelle lenti del binocolo di
Fernando. Riesco a vedere con chiarezza la linea d’ombra, come solo l’avevo
vista nelle foto.
Finalmente arriva il momento dell’alba, che aspettavo con infinita tristezza perché rappresentava il gran finale del Viaggio che ho intrapreso. E come tutti i gran finali, fa piangere, fa commuovere, fa riflettere.