sabato 25 gennaio 2020

...All the Difference (Coromandel 2/3)

Sento la necessità di prendere un attimo il respiro, perché non voglio che questo blog diventi l'ennesimo compito sulla mia inarrestabile lista delle cose da fare. Però questo post lo devo scrivere adesso, quando la pelle brucia ancora a un'ora dal tramonto e i ricordi di questa giornata sono ancora multisensoriali e non ridotti a un bozzetto acquerellato privo di suoni e di odori.

Chiedo scusa in anticipo se divagherò, ignorerò qualsiasi norma narrativa riguardo ordine cronologico, trama e intreccio, e se ciò che ne risulterà sarà in fondo una sequenza di luoghi, anzi Luoghi (in contrapposizione ai non-luoghi di Augé) e riflessioni vagamente postuniversitarie.

Inizio con una citazione-definizione, come si iniziano i temi di italiano che già sappiamo non prenderanno più di sette (il sopracciglio del professore si alza alla prima menzione dello Zanichelli, e sospira al chiudersi i caporali della cit.):

«La penisola di Coromandel (Te Tara-o-te-ika-o-Māui in lingua māori) è una penisola montagnosa protesa per 85 chilometri nell'oceano Pacifico situata nel nord-ovest dell'Isola del Nord della Nuova Zelanda.»


Coromandel, lo ripeto nella mente ogni volta cambiando l'accento e l'inflessione a scimmiottare quella neozelandese o prendere per il culo quella britannica. 

/ˌkɒrəˈmand(ə)l/ Coromandel
/ˌkɒrəmanˈdɛl/Coromandel

Solo la ricerca etimologica restituisce tutta la carica relazionale che Augé definisce indispensabile per fare di un luogo un Luogo (non cit., qui sono io che interpreto a ruota libera): prende il nome da una nave (come tanti altri luoghi qui in NZ, e.g. Miranda), la HMS Coromandel, che a sua volta prende il nome da una costa indiana, così trascritta dagli esploratori portoghesi che non conoscevano il nome originale, Cholamandalam o Kurumandalam (terra dei Chola/regno dei Kuru, a seconda di a chi volete credere).

Dei portoghesi e l'India ho pronta una citazione di Tabucchi, che li conferma come degli esploratori intolleranti e fanatici, ma che "probabilmente per la prima volta concepirono il cosmo come un'idea terribile e assurda e capirono di essere stupidi, limitati e ottimisti".

E qui, nella Penisola del Coromandel, non si può che sentirsi stupidi, limitati e ottimisti. 

Stupidi e limitati perché pare che la comprensione della bellezza sia anche una dote intellettiva, la cui mancanza o inadeguatezza rivela un limite personale. Ottimisti perché ci lasciamo la penisola alle spalle nella convinzione di essersela goduta, di aver guidato, camminato, fotografato il più possibile, ignorando quel sussurro proveniente dalla terra stessa che insiste affermando che non abbiamo capito niente.


Non so che cos'abbia di strano questo luogo, forse le difficoltà delle strade, tortuose e alte, a bordo del precipizio, o strette e scoscese, o la drammaticità del paesaggio che cambia a ogni curva, ma ritorno a casa con il presentimento che mi sia sfuggito qualcosa, che abbia mancato, come si manca un'uscita in autostrada, il Paesaggio Fondamentale, il pezzo finale del puzzle che è, in fondo, un luogo come un altro. 

Eppure ho cercato di abbracciarla e forse mi sono spinta davvero al limite delle mie capacità, completando una spedizione di tredici ore (dalle sette e mezza di questa mattina al tramonto) e spuntando, una dopo l'altra, TUTTE le caselle della mia lista di sfide personali che hanno a che fare con la guida. Sono partita questa mattina con un po' di malessere, come se sapessi già che tanto non sarei riuscita a vedere tutto quello che avrei voluto vedere, ma sono riuscita a sorprendermi lo stesso.

Ho puntato al punto più a nord che potessi raggiungere senza oltrepassare il limite imposto dall'autonoleggio, che non offre assicurazione sulle strade sterrate del nord della penisola (su questo punto ci tornerò dopo). Non solo a nord, ma a est, perché da quanto si evince in praticamente ogni guida o blog di viaggio, la real stuff sta a est, diametralmente opposta a Thames, il mio quartiere generale.

Allora affronto la mia prima tratta, da Thames a Whangapoua, luogo un po' scelto a caso perché vicino alla New Chum Beach, una spiaggia seclusa che si raggiunge solo a piedi attraverso una baia, camminando in parte su un promontorio di scogli. Sono quasi due ore, mica l'oretta e venti promessa da Google Maps, perché non tiene conto dei tornanti, delle strade sull'orlo del precipizio, e dei gipponi con rimorchio che ti intimano a spostarti su una delle piazzole per non impedire la loro corsa a 100 km/h. 

Arrivo alla baia poco prima delle dieci, e ci vuole mezzora di scarpinata sulle rocce per arrivare alla spiaggia, a quell'ora quasi deserta (c'è giusto una coppia e un gruppetto di giovani). Mi fermo, prendo il fiato, scatto foto. Mi siedo a prendere appunti perché c'è un'altra "commissione" (una che ha una scadenza, il trentuno gennaio) che mi preme e non ho più scuse per rimandare. Assorbo la tranquillità sapendo che tra poco la spiaggia si riempirà e mi toccherà andare.





Ma al posto della tranquillità, complice quelle note di scrittura automatica sulla Sicilia, germoglia la saudade, e qui mi incazzo un po' perché non è neanche mezzogiorno e in che stato arrivo al tramonto se già sono in pieno stato emotivo per cui né l'italiano né l'inglese hanno parole, ma il portoghese e il giapponese sì (mono no aware).

(soste panoramiche nel tragitto)

Ritornando indietro, mi convinco che forse mettere qualcosa nello stomaco può aiutare a distrarmi dalle mie tristi sensazioni, e mi fermo nell'assurda Whitianga, forse quanto di più distante dall'idea che mi ero fatta del Coromandel -- un insediamento puramente commerciale,  affollato di turisti non credere (l'unica spiegazione possibile è che siano tutti lì per mangiare). Mi fermo giusto un'ora, il tempo di un'omelette a spinaci e salmone in un deli francese dal nome e l'aspetto un po' pretenzioso French Fig. Il pranzo merita, e il resto del tempo nel café lo scelgo di dedicare alla lettura (Big Magic, Liz Gilbert) e alla digestione, lontano dal sole cocente.

Mi rimetto in viaggio, seguendo stavolta il gregge, verso i due luoghi più iconici e assolutamente imperdibili della penisola: Cathedral Cove e Hot Water Beach.

Mezzora di macchina, più dieci minuti di navetta fino all'inizio di un sentiero che in soli quaranta minuti porta a Cathedral Cove. Venduta benissimo, fino a che non ci si rende conto che (scegli l'opzione esatta):

a) Mi sono dimenticata di pagare il parcheggio, per cui parto con l'ansia che troverò una multa al mio ritorno
b) Ho lasciato l'acqua in macchina e ci sono trenta gradi e zero chioschi
c) Il sentiero è un saliscendi scosceso che termina con centosessanta scalini che mi aspettano al ritorno
d) All of the above

Insomma, con la disidratazione e il caldo, per non parlare dell'affollamento ai limiti dell'assurdo (seriamente, non ho idea di quante famiglie con tre o più figli ho visto percorrere il sentiero, e quanti genitori con figli e borse frigo in spalla, mentre io mi tenevo la milza ansimando come Bellosguardo quando duella contro il pilastro di legno alla corte del principe Giovanni), non è che Cathedral Cove mi faccia cadere la mascella. Un po' un rischio dei luoghi inflazionati, ma il rischio opposto è sempre quello di evitare e rimanere col dubbio per tutta la vita.




(E il parcheggio? Era gratis.)

Hot Water Beach è già meglio, anche se non posso dire di aver provato l'esperienza che dà il nome alla spiaggia, quella di spalare buche nella sabbia per fare emergere le sorgenti di acqua termale (a 45-60° vorrei fare notare) come gran parte dei turisti che sono lì. Diciamo che ero incuriosita dal fenomeno, ma ho preso la spiaggia per una spiaggia come tante e mi sono dedicata a farmi maltrattare un po' dai cavalloni giganti, rinfrescandomi dopo le gran scarpinate/corse in auto della giornata.


Ridendo e scherzando si sono fatte le cinque e mezza, e mi dispiace ritornare indietro così presto perché so che una volta a casa, dopo la doccia, smetterò di funzionare e sarò tentata dal letto, scombussolando poi il mio ritmo circadiano (che per me è sempre stato più circassiano). Sfoglio velocemente la Lonely Planet e scelgo un punto sulla mappa segnalato come di interesse, cosciente che questo può voler dire tutto e niente.

Una scommessa con una posta in gioco mica da ridere, dato che Opoutere è a un'altra ora di distanza e il sole sta cominciando a scendere. Ma, come scrive Tabucchi, che mi accompagna fedele:

Il canto delle sirene può essere fatale ma non ascoltarlo è da pavidi, quando si è davvero in viaggio. 

Sono felice di aver lasciato che un autore passato a miglior vita non da troppo tempo abbia deciso per me. Anzi, quando intraprendo l'ennesimo sentiero che attraversa una palude e una pineta, il cui profumo di resina mi riporta di nuovo alla Sicilia (ora sì che la saudade di questa mattina acquista un senso, forse era un segnale dell'universo, un avvertimento che mi preparava alla saudade vera e propria, quella che colpisce con maggiore intensità all'ora del tramonto), mi vengono in mente quei versi di Robert Frost, forse un po' cliché, ma non decido io quale Poeta Morto si presenta, non convocato, nella testa:

[…]
I shall be telling this with a sigh
Somewhere ages and ages hence:
Two roads diverged in a wood, and I—
I took the one less traveled by,
And that has made… 






ALL the difference.




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