lunedì 20 gennaio 2020

Waipu, aye!

Doveva essere solo una sosta, di strada per arrivare a Pahia. Non mi entusiasmava, giacché l'avevo scelta puntando il dito a caso sulla cartina circa a metà tra Auckland e la Bay of Island. Poi Pahia venne scartata, perché avrebbe voluto dire allungare di due volte il viaggio del ritorno, ma la mia prenotazione a Waipu era rimasta.
Che palle, pensavo, perderò due giorni in un villaggio sperduto nel nulla senza niente da fare.

E invece.

Riavvolgiamo un attimo il nastro.

È lunedì mattina e mi presento all'ufficio dell'Apex a ritirare la macchina a noleggio. Per chi mi conosce, sa che questo è un Very Big Deal, perché una certa cultura nella famiglia TrainaGambino impone che le femmine sono incapaci a guidare, e per cui devono temere anche la propria ombra -- e di autostrade neanche a parlarne. Ci ho messo trent'anni, ma mi sono decisa ad affrontare la fobia. Ho preso in prestito libri di autoaiuto dalla biblioteca, ascoltato podcast sull'ansia, imparato la mindfulness e le tecniche di respirazione e di emotional freedom (tapping). Ho letto, sottolineato, ricopiato e scritto i miei appunti e le mie strategie. Tutto questo negli ultimi tre giorni, dalle 5 e mezza alle 8 del mattino, ovviamente.

A tre giorni di distanza il mio quaderno degli appunti è a metà e io all'ufficio dell'Apex mi ci sono presentata. E i miei 120 km da Auckland a Waipu li ho fatti. Il viaggio in autostrada (a parte l'ingresso) va che è una goduria. Stando attenti ai cartelli, uno potrebbe facilmente orientarsi anche senza navigatore. La macchina è un po' una scatoletta, fa fatica sulle salite e sulle curve, che qua sono segnalate a 65 km/h, che è un po' esagerato, ma when in Rome...


Insomma, guidare mi piace un casino. Mi fa compagnia la voce di Stephen Fry, che mi narra Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, nonostante gli abbia ripetuto più e più volte che sarei in grado di dettarlo dal primo all'ultimo capitolo.

Arrivata a Waipu, dopo il centro del villaggio che consiste in UNA via, iniziano le strade sterrate. Una dopo l'altra. Con calma, arrivo in cima alla collina dove si trova il mio alloggio, dal nome che prometteva bene, A Room with a View.



I proprietari ancora non ci sono, quindi mi tocca ridiscendere lungo le strade sterrate e cercarmi un'occupazione. La spiaggia è a venti minuti dal B&B, per cui faccio un tentativo. La giornata è bella, in fondo sarebbe uno spreco non dare un'occhiata.

Fine dell'inizio del nastro.

E invece.

E invece, la spiaggia di Waipu è uno dei posti più belli che abbia mai visto (fino a stamattina, spoiler). Non ho molto da aggiungere.




Faccio un salto anche a Langs Beach, tre chilometri più avanti, un po' più residenziale, dal mare che piace ai surfisti e le onde impraticabili per una che ha fatto tre lezioni di nuoto in tutto. 


Ma niente, sono attratta da Waipu Cove e ci torno, esplorando anche le spiaggia adiacente e non segnalata, Uretiti. Vi passo tutto il pomeriggio, camminando sul bagnasciuga, arrivando fino alle spiagge successive, DESERTE, incontaminate, quei posti assurdi dove il cervello fatica a elaborare la bellezza, soprattutto quando si è fuori allenamento. Dopo tanto tempo passato a scendere a patti con una scomparsa inaspettata, è difficile sradicare la conclusione a cui inevitabilmente arriviamo tutti, chi prima e chi poi: l'impressione che la felicità sia un concetto intraducibile nella lingua Vita Vera, qualcosa che forse è dato conoscere solo ai monaci tibetani e ai cani.

Ma nelle spiagge di Waipu e di Uretiti, se si è abbastanza fortunati, una mano invisibile ce ne porge un pezzo, da addentare, sentire, esplorare, a seconda della maniera in cui la felicità vuole farsi sperimentare da noi.

Nel mio caso, da ballare.





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