giovedì 30 gennaio 2020

Vento di cambiamenti a Wellington

A nessuno piace affrontare i propri scheletri nell'armadio, questo è certo. Ma oggi posso dire di aver almeno bussato alla porta, rimanendo in attesa, senza scappare a gambe levate.

Per gran parte di questo viaggio ho ignorato Wellington. Sì, ok, è tra le tappe e per forza di cose ci devo andare. Però non l'ho cercata sulla guida, non mi sono informata in anticipo sulle cose da fare. Ho solo un giorno, vediamo di farlo passare in fretta, pensavo.


Perché tutta questa rassegnazione? Perché Wellington è il mio scheletro nell'armadio. La meta che quasi quattro anni fa, ormai, si sarebbe trasformata nella mia temporanea casa, quando mi fu offerta una borsa di studio per la Victoria University che, qualcuno ricorda, rifiutai per Dave.


E da allora temo il confronto. Temo di scoprire che gran opportunità mi sono persa e quanto lo rimpiangerò tutta la vita. E in effetti.



In effetti scopro che sono più coraggiosa di quanto pensassi e che Wellington è una gran città, e che la sua reputazione la precede per i giusti motivi. "Windy & artsy", la definiscono quelli di Auckland, alzando un po' gli occhi al cielo, forse perché Wellington un po' di puzza sotto il naso ce l'ha. Però madonna che cultura.

Stamattina procrastino fino a metà mattinata, colta dal mio senso di nausea nello stomaco che precede qualsiasi momento io trovi difficile. Do una sfogliata alla Lonely Planet, e decido che se riesco a fare l'orto botanico e il Te Papa (il più grande museo sulla storia maori, e non solo), posso dichiararmi soddisfatta.

Invece finisco per girare tutta la città, compresa una tappa che non avevo previsto.


Mi avvio con l'intenzione di raggiungere l'orto botanico con la piccola funivia che porta in cima alla collina. Avrei potuto farla a piedi, ma nutro una gran passione per funivie, ovovie, seggiovie, e qualsiasi cosa viaggi su rotaie o funi d'acciaio. Una delle stazioni della funivia (la mia è al capolinea), è Victoria University. La ignoro.


Non ci voglio andare. Non ci devo andare. Non ci posso andare.

Eppure, arrivata alla stazione dell'orto botanico, torno indietro. A piedi. Seguo le indicazioni per l'università, chissà pensando che cosa, perché adesso ricordo solo un gran correre e guardarsi intorno. Il campus è facile da trovare. Non è niente di spettacolare, niente di oxbridgesco, purtroppo o per fortuna. Mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa da fotografare, un edificio interessante, la biblioteca. 

Mi perdo. Noto varie caffetterie, passo di fianco a una libreria universitaria, e a un certo punto devo anche aver attraversato da parte a parte l'edificio sede dell'unione studentesca. Ormai decisa a lasciar perdere e a tornare indietro, mi perdo di nuovo. Essendo il campus su più livelli, è impossibile trovare l'accesso alla strada a meno che uno non sappia esattamente dove sta andando. Io ho una vaga idea, ma finisco lo stesso nei sotterranei, dove una serie di stampe colorate attirano la mia attenzione.





L'università ospita una tipoteca. E ci sono di fronte. La porta vetri è chiusa, ma c'è un cartello che invita a telefonare per prendere un appuntamento con i tecnici se si vuole visitare. Io ci provo. La tipa che mi risponde si mette a ridere quando mi sbraccio per farle vedere che sono io che la sto chiamando, quella fuori dalla porta.

Viene ad aprirmi. Dice giusto due parole di introduzione, poi mi molla a un'assistente. Solo adesso scopro che la donna che è venuta ad aprirmi è Dr Sydney Shep, professore associato. E l'assistente è Ya-Wen Ho, specialista nei caratteri mobili cinesi. 

Ya-Wen non mi vuole mettere fretta, anzi. Mi prepara una tazza di tè alla menta e mi fa fare il tour del piccolo museo, con tanto di presse funzionanti, caratteri in legno e acciaio, stampe da collezione. 

Mi parla di due progetti, entrambi legati al centro di traduzione letteraria dell'università e, caso vuole, al professore che tra il 2015 e il 2016 si fece in quattro per farmi ottenere la borsa di studio. Sento sempre di più la nausea, ma non posso fare a meno di godermi l'esperienza.

Ya-Wen è così adorabile da incoraggiarmi ad andare a parlare con Marco, che adora ricevere ospiti. Io non voglio disturbarlo, e poi cosa gli direi, però alla fine mi convince. Lasciato il museo, mi faccio strada nel labirinto del campus fino a trovare la porta del suo ufficio chiusa. Quando chiedo ai receptionist, mi informano che Marco è in Italia.

Io però ho bussato.

Mi sono tolta un peso, in un certo senso, anzi, ho fatto un passetto in avanti per togliermi questo peso. Adesso rimane solo da scrivere a Marco e raccontargli che cosa diavolo è successo dal 2016 ad adesso, e se ha voglia di continuare la nostra conversazione sul dottorato. 

Adesso che sono libera, posso fare quello che voglio. Dicevo di voler fare l'orto botanico e il Te Papa, ma ora che il mio debito con Wellington è stato quasi saldato, mi è venuta voglia di vederla tutta. Solo che Wellington non è Auckland, né Norwich. Wellington è grande. O, almeno, lo sembra dalle distanze che percorro, affatto intimidita da Google Maps, che mi consiglia costantemente di prendere un Uber (?).





L'orto botanico mi riporta in città, e qui commetto l'errore madornale di riportarmi verso il centro quando, in realtà, sono dalla parte giusta per andare a visitare la Central Library, ma io questo non lo so. Ora che arrivo in centro, mi è venuta fame. Mangio, e poi mi rifaccio tutta la strada fino alle porte dell'orto botanico per vedere la biblioteca.

Le due mostre che ospita, però, valgono la pena. Una sui trattati e i documenti di indipendenza maori, l'altra sulla presenza dei maori nella scena artistica e culturale.






Nel tragitto fino alla biblioteca avevo notato un Wellington Museum, al quale decido di dare una chance. Ringrazio il cielo che è un museo contenuto (mi sto filosoficamente preparando al Te Papa, che mi dicono sia immenso), e digeribile. Un'istallazione narrativa a ologramma mi piace particolarmente, e mi siedo a guardare tutto lo show, che dura un quarto d'ora, su un paio di leggende maori. Gli altri reperti del museo sono molto random, tutti a che fare però con la capitale, la sua storia, la sua gente. La parte delle esposizioni è dedicata a una mostra di ricamo di bandiere ispirate alle suffragette. Approvo.





Uscita dal museo, praticamente corro al Te Papa, perché chiude alle sei e voglio passarci almeno un'ora e mezza. Che sciocca. Nella foga di voler vedere il più possibile, non mi ero resa conto di quanto immenso fosse il Te Papa, e di quante cose avrei trovato interessanti.

Salto a piè pari un paio di mostre che mi vedo costretta a sacrificare (una sugli animali endemici, e l'altra sui soldati neozelandesi a Gallipoli), e mi rifiuto di pagare l'ingresso per l'ennesima mostra su Alice in Wonderland. Le mostre che rimangono sono eccezionali. 



Una sala immensa è dedicata alla tribù locale, Ngāti Toa Rangatira. Storie dei loro leader, dei loro persoanggi più particolari, e un'infinità di artefatti dal più minuscolo (come pendenti di giada o ossa) ai più imponenti (canoe e edifici religiosi a grandezza naturale). 






Un'altra sala accoglie tutto ciò che in Nuova Zelanda è stato portato dagli immigrati dal Sud Pacifico. C'è un enorme rispetto per i migranti da Samoa, Cook, Figi, Tahiti. Avevo imparato di quanto fosse consistente l'immigrazione da questi paesi alla Auckland Library, quando la bibliotecaria mi aveva fatto vedere le collezioni in lingua straniera,  ma non immaginavo che fossero così rispettati. Video, fotografie e artefatti, invece, dimostrano il contrario.



Una piccola parte espositiva sulle migrazioni storiche in Nuova Zelanda si avvicina molto al concetto museale già proposto da EPIC (Dublino): che una nazione è fatta anche e soprattutto dalla gente che vi emigra. 






Un'ultima parte sui rifugiati mi lascia commossa, e qui è quando la fotocamera si spegne, perché non l'ho lasciata stare un secondo da quando ho varcato l'ingresso di Te Papa.





Avevo in mente di fare un salto in spiaggia per vedere il tramonto, ma all'ultimo momento ho trovato un piano molto più interessante. Di fronte al Te Papa c'è un teatro ("Circa") e stasera danno una commedia inedita dai risvolti politici.



Non posso non comprare il biglietto. Non me ne pento. Per quasi due ore (con intervallo) non lascio dalla sedia e non smetto di ridere. La premessa è: un partito di sinistra molto piccolo, guidato da un leader e una vice pieni di principi ma un po' idealisti e supportati da un team di spostati assoluti, prende il 67% dei voti alle elezioni generali, battendo Tory e Labour (che ci sono anche in NZ). La commedia si dipana in quattro lunghe scene soltanto: la sera delle elezioni, il giorno dopo, un anno dopo, due anni dopo. Alla fine dei conti, è bello sapere che in tutto il mondo la sinistra è paese, con i propri idealismi ballerini e le frammentazioni in micropartiti.



Il verdetto: Satira intelligente e digeribile, tempi comici al secondo, e molta fisicità degli attori. Cast eccezionale e scrittura impeccabile. 

Lascio Wellington a malincuore, ma sapendo che tornerò.

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