domenica 19 gennaio 2020

Auckland: un mese dopo

Un mese dopo, perché mi sembra impossibile aver condensato l'incondensabile in una giornata, benché sia iniziata alle sei del mattino. Disclaimer: sarà un post lungo, ma cercherò di non perdermi in chiacchiere.

Ci si alza presto, ben prima di quanto avessi pianificato. (Ecco già un inciso: sono troppo vecchia per stare negli ostelli. Non ce la posso proprio fare.) Ho in mente di prendere uno di quegli autobus che ti portano in giro, lasciandoti presso le attrazioni più popolari con la libertà di salire e scendere a piacimento. Peccato che non ce ne siano fino alle 9, quindi non dispero e mi rivolgo alla Lonely Planet "Nuova Zelanda" (in italiano) che ho trovato nel reparto 'libri abbandonati' dell'ostello. (Forse l'unica cosa che mi piace degli ostelli… nel corso degli anni, ho adottato parecchi di questi volumi orfani, compreso un Harry Potter and the Half-Blood Prince, raccattato su in Irlanda quando in Italia non era ancora uscito -- e quando la mia conoscenza di inglese era più nella mia immaginazione.) (Continuo a fare incisi, è un meccanismo di difesa contro l'ansia di quanto sarà lungo o meno questo post. Seguimos.)

La passeggiata della Lonely Planet mi porta attraverso una galleria di negozi, Myers Park (con riproduzione sfregiata del Mosè di Michelangelo) e Albert Park. Da Albert Park, arrivare al campus universitario è un attimo, ma mi rendo conto che potrei perderci le ore per cui faccio giusto un paio di scatti a coloratissime specie floreali, dato che il campus funge anche da orto botanico, because why not.




Mi rimane un pochino di tempo prima della partenza dell'autobus, così mi infilo nella St Patrick's Cathedral, che sono andata a visitare principalmente in onore della mia collega irlandese Orla, e della mia cittadinanza irlandese onoraria, autoconferitami nell'estate di un 2007 -- nonché spinta da un'esigenza innata e assolutamente laica di visitare chiese ovunque vada, forse una roba ereditata dai miei.



La prima fermata dell'ExploreBus è fuori città (ecco il punto di pagare la cifra esorbitante del biglietto di questi servizi puramente turistici: che ti portano lontano), su un promontorio che da un lato dà sul porto di Auckland e dall'altro su Mission Bay, cittadina residenziale affacciata sulla spieggia. Alle spalle del promontorio, un enorme distesa di territorio 'sacro' e per cui urbanisticamente intoccabile. 


Gli autobus di ExploreBus passano ogni venti minuti, per cui non sto tanto a gironzolare, faccio giusto un salto dalla parte di Mission Bay e al monumento a Michael Joseph Savage, il primo Primo ministro laburista, e il politico più caro alla nazione per le sue grandi riforme socialiste.


La seconda fermata è un giardino di rose nel villaggio di Parnell. Che dire.
Rose is a rose is a rose is a rose. E se la chiami con un altro nome, fa sempre un profumo pazzesco, che mi riporta all'infanzia e alle rose che papà coltivava davanti a casa. Mi fermo, leggo un po', riparto.




La terza e, per me, ultima fermata del tour, è quella che mi ha convinto a comprare il biglietto dell'autobus in primis: l'Auckland Museum. Ora, sui musei io ho tante riserve, ma più per limitazioni personali che prese di posizione socialpoliticoantropologiche. Io nei musei faccio una fatica immane. Primo, perché vengo presa da una specie di ballo di San Vito, per cui giro come un'ossessa cercando di farmi una lista mentale delle opere su cui voglio tornare a soffermarmi. Peccato che finito il delirante giro di ricognizione, sono in tale information overload che non ricordo neanche come mi chiamo, figuriamoci quello che volevo andare a rivedere. Così, logicamente, faccio un altro giro, e poi finisco in una valle di lacrime a consolarmi della mia inadeguatezza culturale spendendo un patrimonio al negozio del museo. True story.





Oggi sono particolarmente ostacolata dal jet-lag che mi pesa come non mai e a un certo punto del tour guidato di un'ora (che promette le highlight della cultura Maori, ma poi si sofferma mezzora sulla fisionomia dei kiwi, condensando secoli di storia Maori in poche frasi, che peraltro non ricordo) voglio morire. D'altro canto, ho tre forze motrici che mi sostengono:

    1. La bellezza. E all'Auckland Museum ce n'è veramente tanta, per via di quella cosina che è la cultura del Sud Pacifico, che si basa sul principio che un buon artigiano che ci sa fare col legno è socialmente più importante di una figura politica.
    2. Il senso di riappropriazione della cultura Maori, che non ho mai trovato nei musei di altre nazioni dove si trovano a convivere due o più culture contrastanti, l'una coloniale e le altre indigene. Semplicemente incredibile quanto i neozelandesi ci tengano a risaltare la cultura Maori, e non solo per fini turistici e di parvenze da società moderna. 
    3. Le mie consulenti di Antropologia e Storia dell'Arte, Deborah e Carolina, alle quali correggo i saggi di antropologia, che trattano quasi esclusivamente di oggetti e opere d'arte che ho l'incredibile fortuna di ammirare dal vivo all'Auckland Museum. Ovunque mi giri, vedo Oggetti Ambasciatori della cultura del sud pacifico, e sento la voce di Carolina che mi ammonisce quando mentalmente uso termini assolutamente verboten dagli antropologi, come 'tradizione', 'cultura', 'tribù', 'luogo', e 'in un a del' (diciamo la verità, dal punto di vista di una che ha studiato linguistica, e che apprezza l'accuratezza del linguaggio, posso tranquillamente confermare che gli antropologi sono parecchio rompicoglioni).
Seguendo le vocine incoraggianti di Carolina e Deborah, mi infilo perfino nella mostra temporanea, dedicata a una figura storica fenomenale di cui, ovviamente, ignoravo l'esistenza: il navigatore ed, effettivamente, mediatore culturale Tupaia, che fece da navigatore e interprete a nientemeno che James Cook. Non possiamo sapere come sarebbero stati i rapporti tra gli inglesi e le varie popolazioni indigene se Tupaia non avesse collaborato con i coloni, ma quanto è certo è che la sua eredità storica e culturale è sentita -- sicuramente da chi ha messo insieme la mostra, facendo un lavoro di grafica eccezionale.



Insomma, anche l'Auckland Museum è un gran bagno di cultura, che però ha anche l'effetto di abbattermi completamente e per un paio d'ore non funziono. Mi riprendo ad Aotea Square, dove c'è ancora la musica in piazza e ho l'occasione si sentire Donna Dean, che è un po' una Joan Baez locale, e tesoro nazionale kiwi. Effettivamente, i suoi testi sono parecchio struggenti e sul pezzo. Alla fine del suo set acustico, stanno per proiettare un documentario sulla sua vita, ma ho un appuntamento al quale non posso mancare.


Alle 16 di domenica 19 gennaio, la collega Rhia Lennox del servizio bibliotecario di Auckland mi conduce nei sotterranei della biblioteca di Auckland e mi fa fare il tour, ufficialmente aperto a tutti, ma al quale mi sono presentata solo io.

La biblioteca di Auckland è un paradiso di biblioteca, e la prima cosa che salta agli occhi è la qualità del servizio, chiaro segnale che il servizio gode di fondi più affidabili dei nostri, che ogni anno vengono manomessi dalla nostra regione, governata da un manipolo di Tory che ancora non si rende conto che le nostre biblioteche offrono un servizio senza il quale il loro sistema sociale crollerebbe del tutto, e abbandonerebbe migliaia di individui vulnerabili ai quali offriamo -- in ordine crescente di importanza -- spazio, riscaldamento, Internet, libri ed esperienza comunitaria. Detto in poche parole, hanno dei gran bei soldi e si vede.

Spazi all'avanguardia, come questo angolo per 'creare', con tanto di macchine da cucire, stampanti 3D, e PC sui quali sono istallati software megacostosi (da Photoshop a Unity, per farci capire).


Un esempio ideale di mostra basata sulla collezione locale (quelle le facciamo anche noi) è Fun and Games, sui giochi d'infanzia durante i secoli, con fotografie e giochi d'epoca.




 
Sicuramente quello che ho amato di più della biblioteca di Auckland è l'integrazione del Maori, non solo presente nella segnaletica, ma rispecchiato nell'offerta di servizi ed eventi (letture, gruppi di cultura, lezioni di lingua). Noto che la maggior parte dell'offerta è rivolta ai Maori, eppure riescono a investire le proprie risorse anche al resto della comunità estesa del sud pacifico, ovvero le migliaia di immigranti da altre isole (Cook, Fiji, Samoa, etc.).




Una conclusione più che degna per un primo approccio ad Auckland, che mi trovo a lasciare già da domani. A pensarci bene, forse avrei tratto beneficio da una terza giornata in quella che mi sembra la capitale culturale della nazione (vedrete che dirò lo stesso di Wellington…). Ma, che volete che vi dica, Here I Go Again, e domani ci si avvia a nord, a Waipu, dove se dio vuole riposerò un po', girerò di meno e mi occuperò di scrivere per consumazione privata, che già tutta questa presenza sociale comincia a mettermi ansia.

Vi tengo aggiornati, eh.

Kia ora, Auckland. 

Nessun commento:

Posta un commento