mercoledì 29 gennaio 2020

Whānau Means Family, Te Puia

E così ho davvero solo mezza giornata per fare qualcosa a Rotorua prima di restituire la fedele Toyota Yaris all'autonoleggio all'aeroporto di Tauranga.

Come anticipato ieri, io l'ingresso al Te Puia l'ho già comprato, per cui non mi resta che avviarmi di prima mattina. Per il rotto della cuffia becco l'inizio di un tour guidato gratuito con la signora Carla (sì, Carla), una donna di sangue metà maori e metà scozzese. Dice che metà di lei ama bere, e l'altra metà non ama pagare il conto. Muoio.



Il tour inizia con un bell'excursus culturale sulle tribù maori che sono tutt'ora presenti nell'isola del nord. I maori in Nuova Zelanda sono 700 mila, su 4.7 milioni di abitanti totali. Le grandi tribù maori sono otto, ma ci sono centinaia di altre tribù all'interno delle otto principali. Una di queste otto (i Te-Arawa) è la proprietaria di Te Puia, un'organizzazione commerciale volta all'insegnamento della cultura maori al pubblico, nonché sede di una scuola di scultura del legno e di intreccio di fibre vegetali. Questa cosa che Te Puia è posseduto da una tribù è forte, a pensarci. Certo, uno non può fare a meno di pensare a certe tribù di nativi americani, anche loro proprietari di riserve (e, i Simpson docent, di casinò). La signora Carla è molto onesta quando parla della sua tribù e non mi sembra che lavori per qualche magnate maori, anzi.

Parliamo degli enormi wharenui dove si riuniscono i maori per le feste e le celebrazioni. Ci racconta del suo matrimonio, ventisette anni fa, durato due giorni, con quattrocento invitati. E di quello di sua sorella, durato cinque giorni, invitati mil-le-due-cen-to. Poi ci lamentiamo dei siciliani. Entrambi i matrimoni furono celebrati nel wharenui ospitati all'interno di Te Puia, ma Carla ci racconta che tantissimi di questi edifici sono sparsi in tutta l'isola, in città o nei villaggi. Ed è qui che assisterò alla mia prima pōwhiri, la cerimonia tribale che si celebrava quando due tribù entravano in contatto.




Ma, prima, seguiamo Carla lungo il percorso, che parte dalle stazioni geotermali (direi che dopo Rotorua, ho respirato tanto vapore e zolfo da essere a posto per tutta la vita), e continua nel centro di protezione dei due kiwi ospiti della struttura. I geyser all'interno di Te Puia sono molto più spettacolari dello spruzzetto dal Wai-O-Tapu (benché Wai-O-Tapu abbia laghi dai colori molto più sgargianti), e siamo circondati da fango ribollente dappertutto. Il rumore del fango che ribolle è così forte da coprire perfino il ciarlare dei gruppi di turisti che cominciano ad affollare il parco. 





I kiwi nel centro di protezione non si possono fotografare, e comunque la mia fotocamera non sarebbe stata in grado di riprodurre le debolissima immagine del kiwi nel semibuio. Essendo i kiwi animali notturni, il terrario viene illuminato di luce debole rossa per simulare la notte quando il centro è aperto, e poi a luce diurna quando in realtà fuori è notte. Questo è il momento in cui i kiwi si infilano nella loro tana sotterranea e ci vediamo domattina.

La kiwi femmina non si fa vedere, ma il maschio è bello tranquillo che fa la sua colazione a base di animaletti vari. Non faccio fatica a capire che cosa ci trovino i neozelandesi nei kiwi. Sono davvero animali adorabili, con il loro corpo rotondeggiante e le zampotte che mi ricordano le mie. Cani, gatti e altri piccoli mammiferi sono pericolosissimi per i kiwi, porelli.

Un altro giro fra geyser e laghi vari, Carla ci parla della formazione geologica di Rotorua e dintorni, un distretto che giace su un vulcano estinto. La probabilità che erutti si aggira intorno allo 0.8%, e ci consola dicendo che se dovessimo saltare tutti in aria non sarebbe poi un brutto modo per andarsene, dato che siamo in vacanza. L'umorismo maori non ha limiti.

Carla ci riporta al punto di partenza dove c'è ancora mezzora prima che inizi la pōwhiri. Vado allora a vedere quella che è l'altra gemma di Te Puia: la scuola. I laboratori di scultura del legno e di tessitura/intreccio di fibre sono aperti e il pubblico può vedere gli studenti all'opera. 

Essendo ancora abbastanza presto, sono l'unica che si è presa il disturbo di andare a guardare, e gli studenti non sembrano affatto schiavetti in vetrina come me li ero immaginati. Cantano le canzoni che passano alla radio (tipo questa) lavorando il legno, consultandosi a vicenda, improvvisando un ballo tra una scalpellata e l'altra. Sono proprio una piccola famiglia, e mi stupisce vedere che la maggior parte ha la mia età, e i più giovani forse avranno solo un paio di anni in meno di me.




Alle dieci e un quarto finalmente inizia la cerimonia. La donna che ci presenta alla sua tribù chiede al pubblico un volontario uomo che rappresenti il capo della nostra tribù. Si fa avanti un tizio londinese, seguito da due bambini esagitati e una moglie non proprio entusiasta. La tizia ci fa ripetere diversi saluti maori, e poi lascia spazio ai guerrieri, che si presentano fuori dal wharenui nel quale, intuiamo, si svolgerà la cerimonia.

Fino a questo punto, il mio irritante scetticismo non aveva limiti. All'Isola di Pasqua mi ero rifiutata di partecipare a questo tipo di performance, non saprei dire perché, forse perché ho sempre pensato che mancassero di rispetto alla popolazione locale commercializzando riti e tradizioni alla quale qualcuno sicuramente terrà molto. 

Come spesso accade, prendo un abbaglio. Per quanto riguarda i Te Arawa, mostrare le loro cerimonie ai non maori è un grande onore. Permette alla cultura maori di sopravvivere, anche se sotto forma di performance. Che poi, quella a cui assistiamo è sì una performance, ma il fatto che ci viene chiesto di togliere qualsiasi copricapo e di non gironzolare per il wharenui un po' mi fa capire che queste persone comunque esigono un certo rispetto. E io questo lo apprezzo.




La cerimonia è un susseguirsi di presentazioni di canti, danze, mosse militari e perfino giochi. Rimango a bocca aperta dalla coordinazione degli artisti. I canti sono molto complessi, a diverse voci, alcune improvvisate sul momento, così come sono improvvisate certe espressioni che accompagnano le mosse militari. Gli scambi di oggetti e strumenti musicali avvengono durante il cantato, e non posso negare di apprezzare tutto il lavoro di direzione artistica, che non mi aspettavo da un gruppo di artisti così piccolo (tre donne e quattro uomini, più un musicista).

Ciononostante, non ho affatto l'impressione di assistere a una performance che potrebbe essere stata studiata per Disneyland. Interattiva, questo sì, visto che a un certo punto noi donne veniamo convocate per imparare una danza del genere poi, che prevede l'uso di uno strumento decorativo ma anche musicale, le poi balls. Come c'era da aspettarsi, facciamo tutte una gran figura di merda cercando di stare dietro alle indicazioni degli artisti. (Ma non colossale quanto la figura di merda che gli uomini fanno per impararare la haka.)



Lascio Te Puia col sorriso e la certezza di aver imparato ancora di più su una cultura della quale mi sto pericolosamente innamorando. La trovo molto simile alla cultura Rapa Nui, e dato che io sono isolana dentro non ci si deve stupire se sono proprio imbesuita da tutto ciò che riguarda il sud pacifico.

Sulla strada per l'aeroporto di Tauranga, lascio quest'area della Nuova Zelanda con un salto breve alla spiaggia di Maketu, dove raccolgo i miei pensieri prima di spiccare il volo per Wellington.




Il canto di oggi mi invita a farmi avanti, e io non mi tiro indietro.

E te hunga whakapono iti
Me haere māori i runga i te moana nui
E tā!

Ka whati te moana nui – e tā!
Ka whati te moana roa – e tā!
Ka mānu, ka mānu tonu e tā – e tā

He waka tē ai tahuri – e tā!
He waka tē ai tīkoki – e tā!
Ka mānu, ka mānu tonu e tā – e tā

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